Bambini di ferro di Viola Di Grado
Commenti e riflessioni16 dicembre 2018
Viola Di Grado, Bambini di ferro, La nave di Teseo, 2016
di Vera Meneghello
Testo originale sia per forma che per contenuto. Estremamente elaborata la ricerca di aggettivazione e di costruzione lessicale. Lettura complessa dove si sovrappongono più piani che si intrecciano continuamente: quello della narrazione di pochi personaggi, tutti femminili, coinvolti in una storia al limite della fantascienza, quello religioso con la descrizione della vita di Buddha e le continue citazioni del suo pensiero e quello neuro-psichiatrico da cui la scrittrice attinge contenuti scientificamente attendibili. Quindi un vero e proprio connubio e sintesi tra creatività e scientificità come nei classici testi fantascientifici.
Viene narrata, a volte in maniera particolarmente tecnica e con un linguaggio sopra le righe, la vicenda, ambientata in Giappone, di una educatrice in un istituto per bambini soli o “diversi” di nome Yuki a cui viene affidata una bambina di nome Sumiko, reduce dalla grave perdita dei genitori, quindi emotivamente disturbata che, per proteggersi dal dolore, si chiude in un ostinato mutismo elettivo. In lei Yuki vede se stessa bambina dopo il fallimento di un programma di accudimento artificiale, sostitutivo della madre naturale, che le aveva fatto assumere comportamenti ed atteggiamenti di isolamento ed evitamento affettivo e sociale.
In questo rapporto, incomprensibile ai più, si mescola, in maniera a volte dissociata, il presente, il passato e il futuro.
Il presente è caratterizzato dal bisogno e dalla ricerca continua di affetti veri per la realizzazione di sé, dal desiderio di essere amati e di amare per poter vivere (Sumiko).
Il passato è impersonato dalla figura di Yuki come testimonianza dei guasti irreversibili che possono essere provocati da legami di attaccamento disfunzionali tanto da definire “arpionamenti misteriosi e terribili” gli abbracci come li percepivano i bambini definiti issendai, cioè difettosi.
Il futuro viene rappresentato come concreto rischio di trasformare la vera maternità, che tradizionalmente comportava trasporto, tribolazioni e coinvolgimento affettivo, in una specie di surrogato tecnologico senz’anima creato artificialmente da educatrici che programmano l’amore materno come se fosse un algoritmo matematico nella pratica dell’Accudimento Artificiale realizzato da fantomatiche Unità Materne, fantocci robotizzati con sembianze umane.
I bambini di ferro sono dunque il risultato di un esperimento fallito di accudimento materno perché il meccanismo artificiale si inceppa, come accade alle macchine, ed i bimbi che avevano fatto parte di quel programma sono considerati irrecuperabili e impossibili da salvare.
Il romanzo assume a questo punto la funzione di opera di avvertimento, come un urlo disperato, della probabilità che si possa prospettare una società altamente indesiderabile e spaventosa nella quale alcune tendenze sociali e tecnologiche (madri surrogate, uteri in affitto, ecc) possono essere portate a estreme conseguenze fortemente destabilizzanti.
Romanzo quindi distopico esattamente contrario a forme di utopia.
Il messaggio subliminale è che l’amore perfetto non esiste, ma sicuramente i figli non sono proprietà di chi li ha generati, ma sono il riflesso di chi li ama, di chi sa realizzare con loro un rapporto di attaccamento sicuro, indipendentemente dalla procreazione biologica (Yuki tiene sotto il cuscino, fino all’età adulta, il dito metallico dell’Unità Materna, la madre artificiale, quella che però ama prima che venisse disintegrata).
Il tema è sicuramente affascinane ed attuale e dovrebbe promuovere nel lettore interrogativi e riflessioni. Ma viene trattato con un certo distacco che difficilmente riesce a coinvolgere ed a commuovere. Forse il fatto di averlo inserito in un contesto di fantascienza, come il programma di Accudimento Artificiale svincolato da una realtà possibile, lo fa percepire come virtuale e non reale, incapace quindi di suscitare orrore e sdegno come dovrebbe.
Inoltre, i numerosi rimandi ai principi e dettami del Buddhismo antico, spesso ripetuti ossessivamente come un mantra, appesantiscono notevolmente la scorrevolezza e il fluire della narrazione.
Una bella idea ma realizzata in maniera schizoide ed artefatta che spesso disorienta.
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