17 novembre 2020

Domenico Starnone, “Scherzetto”, Einaudi, 2016

 di  Vera Meneghello

“Scherzetto” è un libro interessante sia per motivi stilistici sia per contenuto. E’ un libro veloce ma denso, tre giorni raccontati in 176 pagine. E’ un romanzo stratificato che, sotto una agile e piacevole lettura di una originalissima competizione generazionale, offre profondi spunti di riflessione. Riflessioni sull’umanità alle prese con il graduale ma inesorabile sgretolarsi delle proprie certezze e con la perdita di identità, sulla complessità delle dinamiche familiari, infine sull’arte ponendoci degli interrogativi sulla natura del talento, se innato o acquisito. L’autore sostiene che il talento, anche se riconosciuto e coronato dal successo,  ha bisogno dell’arte cioè dell’esercizio per mantenerlo vivo e che per la maturazione del proprio talento è necessaria la conoscenza delle proprie fragilità. Il bello del libro è proprio questo: le fragilità ci dicono come è fatto il mondo. A tale proposito, non a caso, in sopracoperta del volume è riprodotto un olio di Dario Miglionico, pittore napoletano contemporaneo, che è parte di una serie di dipinti dal titolo “Reificazioni”, titolo questo di  un concetto filosofico della dottrina di Karl Marx che rimanda al processo mentale attraverso cui  si converte in un oggetto concreto e materiale il contenuto di un’esperienza astratta. Qui si allude alla trasformazione del linguaggio pittorico nella società contemporanea dove assistiamo a una drammatica frammentazione dell’io, dove si perde l’unitarietà della persona e del suo pensiero, quindi dell’identità e della sua dimensione psichica. E’ il motivo per cui Maglionico nelle sue tele rappresenta le persone  metaforicamente come  figure fisicamente incomplete, dominate da un senso di straniamento, con sguardi indefiniti, con parti mancanti o lineamenti sfocati o al contrario con arti sovrabbondanti.

Starnone, con la sua prosa lineare ma profonda si concentra sul tema della vecchiaia e sul confronto tra questa e l’infanzia, come forse nessun altro autore è riuscito a fare in modo cosi inconsueto. L’abilità di Starnone consiste nell’identificare le difficoltà proprie ed altrui cogliendole in situazioni banali e quotidiane, quelle che spesso sfuggono alla nostra  coscienza, di cui non ci rendiamo conto e che tendiamo a giustificare e spesso ad assolvere.

Racconto tagliente, tesissimo, senza sentimentalismi, amaro, malinconico, un perfido e al contempo divertente scontro  tra un nonno stanco, egoista, distratto e un piccolo nipote vitalissimo, molto intelligente  ma anche saccente petulante  e sapientone. Nella partita che si gioca tra loro, attraverso l’ espediente del rapporto nonno- nipote dove potrebbe esserci  un tenero e commosso passaggio di consegne fra due generazioni, si racconta invece la durezza dei legami familiari nello scontro tra due mondi: uno che sta finendo e quello che sta nascendo. La storia è ingannevolmente semplice da raccontare come sono spesso le cose più complicate della vita. Starnone ci  racconta la storia di un uomo anziano, disegnatore di grande talento e fama ma al canto del cigno cioè sul finale di una pregevole carriera  che non accetta la sua età e, con essa, neanche l’idea di non essere più il grande artista che è stato. Viene costretto dalla figlia, professoressa universitaria di matematica, a ritornare a Napoli, città natale da cui era partito tanti anni prima, per badare al nipotino Mario di 4 anni, quasi sconosciuto per lui, mentre lei e il marito, anche lui professore universitario, sono ad un convegno. In questi tre giorni si crea un duello impari tra il nonno ultrasettantenne e il nipote tendente ad un processo di adultizzazione precoce, come avviene spesso per i figli unici stimolati ed esaltati eccessivamente dai genitori. Il confronto con il piccolo, adorabile e contemporaneamente sgradevole, giudizioso ma cocciuto, manipolatore raffinato, gioca al nonno un brutto scherzo: fare i conti con se stesso, con il suo passato, con la vecchiaia incombente, con un inaridimento, finora da lui disconosciuto, del suo estro creativo. Il confronto tra i due protagonisti è piuttosto bellicoso, sono due personalità fortemente narcisistiche, separate da circa settanta anni e dalla incomunicabilità di due mondi diversi e reciprocamente a loro  sconosciuti. La presenza e le azioni del bambino inducono il nonno ad intraprendere il difficile percorso della consapevolezza: incontrare il fantasma di ciò che poteva essere e non è stato.

E’ molto suggestivo, a questo punto, notare l’analogia che l’autore fa tra il protagonista di “Scherzetto” e quello del citato racconto breve “The jolly corner” di Henry James, di cui deve produrre alcune tavole pittoriche commissionategli da un famoso editore prima della sua partenza per Napoli. Entrambi ritornano dopo molti anni nella città natia e si trovano a riflettere sulle scelte mancate e a come sarebbero diventati se fossero rimasti dove erano cresciuti. Ma mentre nel personaggio di James del racconto la revisione della sua vita viene sollecitata dalla presenza di un fantasma, che poi non è altro che il suo alter-ego, nel nonno dello “Scherzetto” lo stimolo alla revisione si nasconde nella impertinente spontaneità del nipotino che consegna al nonno il suo ritratto più vero. E’ il riesame di una intera esistenza sollecitato da una sorta di competizione con il nipotino che dimostra di avere un innato talento per il disegno.   Infatti sarà proprio  un disegno fatto dal  bambino per gioco, inconsapevolmente ricco di talento, che squarcerà, nella percezione del nonno, la esaltante pienezza di anni di lodi e successi, un equilibrio costruito con fatica, che viene lacerato, dilaniato all’improvviso dalle continue performance del bambino che dimostra di sapere fare tante più cose di lui,  lasciando così spazio a dolorosi interrogativi. La vanità del nonno, ingombra del proprio io, viene smontata dalla spontaneità talentuosa del bambino. Il nonno ha vissuto la propria esistenza sentendosi unico ed eccezionale, mentre ora ogni certezza sembra miseramente lacerarsi. Il nipotino Mario (uno dei ritratti infantili più riusciti e maliziosi della nostra narrativa recente) che crede di sapere fare tutto riporterà infatti alla memoria del nonno un se stesso bambino costringendolo involontariamente a confrontarsi con i fantasmi del passato, con i ricordi familiari, con i mille volti possibili e abbandonati del se adolescente, con tutte le opportunità bruciate nella scarsa consapevolezza delle proprie scelte, con la paura che la rabbia della sua infanzia non si dissiperà mai. Ma il centro del disagio interiore del nonno rimane il bambino: è l’evidenza della non unicità, è  la rappresentazione concreta del ricambio generazionale, del nuovo che irrompe nella sua vita percepito dall’anziano come una minaccia e una intollerabile sostituzione del se. C’è la rabbia del diventare vecchi davanti all’infanzia che esplode, che ha tutto il futuro davanti dove può esprimere tutte le sue potenzialità. A lui tutto ciò è precluso, non ha futuro, rimane lo smarrimento di fronte alla vita dentro e dopo di lui in un groviglio di inquiete emozioni di un adulto che non ha trovato ancora se stesso. Infatti, anche nell’appendice finale del libro, una specie di raccolta di appunti, schizzi ed illustrazioni che funge da corredo quasi critico alla storia, lo scrittore vuole sottolineare la differenza tra la realtà e la fantasia.

Il finale felice che si potrebbe dedurre dalla conclusione della storia narrata, appartiene ai libri. La realtà,  invece, appartiene agli uomini ossia : la vita è un’altra cosa. Tanto da concludere con la inquietante ultima frase: ”non so, stamattina, se ho paura per il bambino o ho paura del bambino”

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Se ne è parlato quasi come se protagonisti non fossero solo il nonno Daniele e il nipotino Mario, ma anche i tanti temi che sono stati evidenziati durante la discussione, dal conflitto generazionale, alla durezza dei legami familiari, al peso e alla degenerazione della vecchiaia che sembra piombare sul nonno, scatenando un momento di autocoscienza determinato dall’incontro con il nipotino che è elemento catalizzante di questa storia disperata, amara, quasi tagliente con assoluta assenza di sentimentalismi. Tutti temi complessi che l’autore affronta con un’apparente semplicità del testo. Si è sottolineata la presenza sullo sfondo di Napoli e dei suoi suoni ed è stato evidenziato in particolare il tema della natura del talento nell’arte.

Quasi tutte hanno molto apprezzato oltre ai temi affrontati anche lo stile della scrittura di Starnone, con qualche voce di dissenso che ha evidenziato come le sue pagine risentano sia della presenza di un modello di scrittura a cui adeguarsi, sia di un disegno per predisporsi ad eventuali riduzioni per il cinema o la televisione.

In definitiva il libro è molto piaciuto ma c’è stata anche voce di più o meno pesante dissenso che ha parlato di libro noioso, con molti luoghi comuni che si ripetono, rendendo il testo quasi monocorde.

Sono stati citati i racconti “L’angolo felice” di Henry James e “Il bambino tiranno” di Dino Buzzati sottolineandone analogie e differenze.

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di Roberta Ruggieri

Una partita a due giocata su più tavoli.
Domenico Starnone si conferma narratore capace che intreccia realismo, riflessioni, introspezione e ironia.
Sullo sfondo Napoli, il giusto contesto  del racconto.
Che lo scrittore ci viva o no; che sia o non sia Elena Ferrante, sicuramente Napoli è dove tutto è incominciato.