Una Madre, di Colum McCann con Diane Foley

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22 Ottobre 2024

Colum McCann con Diane Foley, “Una madre“, traduzione di Marinella Magrì, Feltrinelli, 2024

proposto da Franca Botrugno ed Isa Bergamini.

di Franca Botrugno

Ricominciamo gli incontri del nostro gruppo di Lettura LeggerMente con la lettura del recente
lavoro di Colum McCann “Una Madre” scritto, si può dire, a due mani perché la scrittura
dell’Autore dà voce alla vicenda della signora Diane Foley, madre del giornalista James Foley,
che accetta di incontrare in carcere il terrorista – assassino del figlio, Alexanda Kotey, e
partecipare a noi tutti il suo vissuto
Questo romanzo parte da un episodio tragico, la decapitazione di James Foley, un giornalista
americano free lance impegnato ad indagare sulla verità della complessità umana e sociale,
già preso in ostaggio in Libia e poi liberato, e nuovamente imprigionato in Siria come ostaggio
dell’ISIS, brutalmente torturato per due anni e poi decapitato. Storia di crudeltà estrema
mostrata “senza veli”, in rete al mondo ad imperituro monito agli Stati Uniti e non solo.
L’Autore dà voce in questo romanzo alla madre di James che alla fine del romanzo diventerà ,
a detta di Kotey, il terrorista, come “una Madre” per tutti noi.
Diane Foley donna eccezionale sofferente, tormentata e dibattuta tra tanti sentimenti
contrastanti ha trovato nella sua anima profondamente religiosa la forza di perdonare e non
solo, ma di essere capace di entrare in empatia con l’assassino del figlio facendo leva sul
proprio “coraggio morale”, stesso sentimento insito in James (come si evince dalle pagine
dedicate alla sua biografia).

Diane ci porta a percorrere i momenti salienti della formazione del figlio, facendocelo
conoscere, e poi ci introduce nei momenti più ardui della vicenda comprese tutte le strade
intraprese per la liberazione del figlio, le richieste di aiuto alle istituzioni, tutte richieste, come
da prassi americana, completamente inascoltate.
Diane esprime con forza e grazia i suoi stati d’animo e sentimenti ma è, a mio parere, avendo
letto altro dell’Autore, la magistrale scrittura di Colum McCann con la sua abilità di indagare
con puntigliosità su accadimenti, sentimenti e motivazioni di chi fa il male nella ricerca di una
verità quanto più viscerale possibile. L’Autore indaga varie “dimensioni umane” e destini
traumatici dando vita a pagine che interrogano profondamente su vari temi: terrorismo, guerra, violenza, giustizia ecc. tra l’altro di stretta attualità. Diane, unica nella sua famiglia, accetta di incontrare l’assassino del figlio Alexanda Kotey (significato del suo nome: difensore degli uomini-anima gentile), ma sedendosi al tavolo di fronte a lui controlla la distanza pensando “non volevo doverlo toccare”. Ha voluto incontrarlo perché “conoscere il come della morte della persona amata è conoscere meglio la sua vita”. In partenza non sa cosa chiedere a Kotey ma poi, pur spesso dubitando della veridicità di ciò che dice, apprende elementi sulla prigionia e il comportamento di James per poi entrare
anche nel suo vissuto (lui parla delle sue figlie ora racchiuse in un campo profughi, la
preoccupazione di ciò che la madre sente di lui attraverso i media). Entra in empatia tanto da
pensare “ogni uomo ha bisogno della sua dose di amore”, tanto da proporre di far qualcosa
per le sue bambine (perdono, compassione) ed alla fine porgergli anche la mano.
Toccante la descrizione del pianto che Kotey non riesce a reprimere dopo aver visto la commozione intensa del padre di James in un filmato “J Foley reporter dall’inferno”, girato da un amico
d’infanzia e da li che scaturisce un ricordo ed una motivazione sugli atti che comunque compie , come più volte afferma, per obbedienza all’organizzazione alla quale si è affiliato.
Diane parla di tristezza, la tristezza che si continui a toglierci la vita l’un l’altro e che ciò si
riduca alla giustizia o alla vendetta, dice inoltre che sicuramente da molti sarà tacciata di
ingenuità e di essersi fatta raggirare da lui e ora, dopo sette anni dalla perdita del figlio, piange.
Diane Foley è oggi una scomoda attivista politica e testimone del potere dell’empatia e del
coraggio morale. Grande esempio

Tasmania, di Paolo Giordano

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11 giugno 2024

Paolo Giordano, “Tasmania“, Einaudi, 2022

proposto da Roberta Ruggiero

di Roberta Ruggiero

Tasmania” di P. Giordano, definito nel settimanale “La Lettura”, il secondo miglior libro del 2022, è l’ultimo prodotto di un Autore che non si è fermato al successo del suo primo libro e ha continuato a cercare nuove strade, anche stilistiche. Le sue opinioni e il suo comportamento esprimono grande equilibrio.
“Tasmania” si situa tra alcune opere europee contemporanee che cercano nuove forme di espressione. Usa il romanzo come chiave di accesso, tracimando poi in altre forme: il saggio, il giornalismo, l’autofiction, riuscendo a riflettere su tutta un’epoca. Ci racconta tante cose, grandi e piccole, private e collettive, si serve della scienza e della quotidianità, riuscendo a tenere tutto insieme. E’ lungo l‘elenco delle crisi del giovane uomo contemporaneo e della realtà fisica e sociale che vive. La minaccia nucleare passata e presente aleggia su tutto e tutti e qui il racconto sfiora la commozione. Belle pagine parlano della commemorazione in Giappone del drammatico lancio della bomba e fanno scattare la commozione, soluzione proposta per rispondere alle crisi. La fuga a Tasmania, vagheggiata da alcuni, è solo allora una apparizione fugace, un sogno, ma non la soluzione. Questa va invece cercata nelle relazioni umane, negli affetti, nella memoria collettiva sempre da conservare.
La scrittura è fluida, viva e lo stile è quello della “no fiction” che attinge a piene mani alla realtà e alla vita stessa dello scrittore.

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Breve nota a cura di Roberta Ruggiero, dopo l’incontro del gruppo di lettura:
L’incontro comincia con una breve presentazione nella quale sono state ribadite le ragioni della proposta e i temi di fondo del libro.
Gli interventi che si sono succeduti hanno quasi tutti sottolineato che l’opera non ha convinto. Hanno fatto eccezione un paio di giudizi che hanno invece apprezzato il libro, sottolineando la stima nei confronti di Giordano. Di contro i difetti che sono stati sottolineati dalla maggior parte delle lettrici sono stati i troppi problemi elencati sia individuali che universali e un non convincente intreccio tra le due dimensioni. Alcune hanno sottolineato la differente qualità tra l’opera di esordio di Giordano “La solitudine dei numeri primi” e “Tasmania”. Interessanti interventi hanno parlato delle analisi sui giovani e le loro crisi esistenziali e ne hanno dedotto riflessioni sulla personalità dell’autore.
Sono stati citati:
Freedom” di Jonathan Franzen
Collasso” di Jared Diamond
Genera libertà l’impegno della ragione”, conversazione fra Paolo Giordano e Ian McEwan, a cura di Cristina Taglietti, La Lettura, 13 novembre 2022.
Il romanzo del presente” di Nicola H. Cosentino, La Lettura, 4 dicembre 2022.

Trittico dell’infamia, di Pablo Montoya

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30 Aprile 2024

Pablo Montoya, “Trittico dell’Infamia“, traduzione di Ximena Rodriguez Bradford, ed. e/o 2015

proposto da Isa Bergamini

di Isa Bergamini

Trittico dell’Infamia” è un affascinante e appassionante romanzo storico, ma sarebbe limitativo leggerlo solamente in questa chiave, perché potrebbe essere anche considerato un saggio su alcuni momenti drammatici dell’Europa del XVI secolo.
Il libro è diviso in tre parti con tre protagonisti Jacques Le Moyne detto Morgues cartografo e illustratore, François Dubois pittore e Théodore de Bry incisore e stampatore. Tutti e tre ugonotti del XVI secolo, mentre il centro Europa era flagellato dalle guerre di religione e la Spagna cattolica giustificava con il progetto dell’evangelizzazione, il genocidio delle popolazioni nelle terre d’oltre oceano, depredando quei territori senza alcuna pietà.
Le storie dei tre protagonisti si intersecano in momenti essenziali al racconto, avendo in comune i primi due di aver assistito a “Infamie”, che provano a testimoniare illustrandole e il terzo divulgandole con la stampa. Le Moyne con i disegni sulla vita dei nativi americani e sui massacri commessi dagli spagnoli e Dubois con la tavola che illustra il massacro della Notte di San Bartolomeo a Parigi. Théodore de Bry sarà lo stampatore che pubblica le loro testimonianze.
Il libro è strutturato e costruito in ogni sua parte, dove ogni elemento raccontato è pensato in rapporto con tutti gli altri, anche i meno determinanti, quasi fosse un’incisione nella quale anche il segno meno incisivo, contribuisce al racconto complessivo che si vuole rappresentare.
Libro molto colto con una pagina densa di citazioni e riferimenti ai grandi della letteratura, precedenti o contemporanei dei tre protagonisti, ad esempio Rabelais, Erasmo, Michel de Montaigne e molti altri, ma anche Virgilio. Moltissimi i riferimenti ad architetti, pittori e scultori del ‘400 e ‘500 europei, ad esempio Pieter Brugel, Jean Fouquet e la sua Madonna col bambino, Jan van Eyck e i Coniugi Arnolfini, Paolo Uccello e la sua Caccia notturna, di Albrecht Dürer gli autoritratti e le incisioni. Dei luoghi visitati dai protagonisti ricordo solamente il Duomo di Amien con il Labirinto e il Duomo di San Bartolomeo di Francoforte. Fra le sculture citate c’è il San Bartolomeo scorticato di Marco d’Agrate che si trova nel Duomo di Milano, che con la sua pelle adagiata sulle spalle come un mantello, richiama le atrocità alle quali erano stati sottoposti gli indigeni colombiani dai cattolici spagnoli.
Molti altri potrebbero essere gli esempi da citare, ma il senso del libro si può riassumere nelle parole che lo scrittore immagina di scambiare con Théodore de Bry durante un impossibile incontro e che scrive “…potrei dimostrargli che, nonostante i comfort della tecnologia e i risultati della scienza, il mio tempo è forse più spaventoso del suo. Ma lui potrebbe dire che l’uomo è stato, è e sarà sempre una creatura devastatrice, e il patimento che provoca, è la costante della storia.”
Le infamie sono sempre infamie in ogni luogo, di qua e di là dell’oceano e in ogni tempo, dallo sterminio delle popolazioni dell’intero continente americano, realizzato in tempi diversi a partire dalla Conquista, alla terribile notte di San Bartolomeo, fino ai morti della prima e seconda guerra mondiale ancora in Europa, ma il pensiero corre oggi, soprattutto ai palestinesi di Gaza e ai giovani ebrei massacrati.
Pablo Montoya ha consultato un originale di “Brevissima relazione della distruzione delle Indie” di Bartolomé de las Casas e descrive con grande precisione e emozione le diciassette incisioni di Jacques Le Moyne, apprezzando e sottolineando anche la qualità e l’importanza del lavoro dello stampatore Théodore de Bry.
Il libro si chiude magicamente al suono dei rintocchi delle campane, al lume di candela e con le parole di Thedore de Bry “Tu prendi una candela e tu un’altra, disse ai figli. Tu Catherine, ne accenderai una in onore di padre de las Casas. Per averci dato quel libro che è come un faro nell’oscurità più funesta e averci insegnato la negazione di ogni violenza. L’altra la accenderò io – anche se so che non basterà e che non avremo mai le candele necessarie a lenire i loro dolori, e se anche le avessimo, non credo che questa città riuscirebbe a contenerle – per ricordare i nostri fratelli nella persecuzione.”
Una scrittura molto ricca e a tratti anche poetica, sapientemente tradotta, accompagna il lettore di pagina in pagina a scoprire gli angoli bui dei grandi eventi della storia del XVI sec.

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Breve nota a cura di Monica McBritton, dopo l’incontro del gruppo di lettura:

L’incontro è iniziato con una sintetica relazione sul libro, nella quale sono state precisate le ragioni per le quali ne era stata proposta la lettura e sono stati rimarcati alcuni profili rilevanti dell’opera. In seguito, come di consueto, abbiamo proceduto ad un giro di interventi.
Una questione che ha dato luogo ad un certo dibattito è stata quella dell’inquadramento dell’opera. Questione non facile da risolvere vista la complessità del tema affrontato e della struttura dell’opera. È stato rilevato che essa si inserisce nel filone del romanzo storico postmoderno. In tale filone si inseriscono anche alcune opere di Edmund De Waal e Jan Brokken. Si tratta di un approccio che contiene sia l’opera di fantasia che la dimensione saggistica.
Tale impostazione ha suscitato qualche dubbio sulla fedeltà dell’autore alle fonti, in quanto l’opera potrebbe essere stata indebitamente aggiornata, in particolare per quanto concerne il ruolo che l’Autore attribuisce alle stampe per la diffusione nell’Europa del ‘500 dell’informazione sugli orrori della colonizzazione.
Un altro importante aspetto, più volte richiamato è la rilevanza assunta dalla corporeità degli indigeni anche in rapporto all’effetto che essa provocava nei colonizzatori.
È emerso anche il collegamento con gli scritti di Eduardo Galeano. Ed è stato osservato in particolare che si tratta di un volume contro l’oblio, principalmente perché tratta della questione coloniale avendo come filo conduttore un profilo meno noto, ovvero il conflitto religioso europeo fra cattolici e riformati, fra la Francia e la Spagna.
Su quest’ultimo aspetto si è detto che P. Montoya ha provato a rispondere a una domanda presente in America Latina: come sarebbe stata l’evoluzione della sua storia, se i colonizzatori fossero stati i riformati e non i cattolici?
Poiché, evidentemente non esiste una risposta puntuale a tale quesito, è pregio dell’opera la tematizzazione approfondita della questione.
Complessivamente, il volume è stato apprezzato, anche se è stata più volte rilevata la complessità della struttura dell’opera, la quale premia il lettore perseverante.
Molto apprezzato anche l’uso che viene fatto nel testo di alcune opere d’arte, in particolare i riferimenti al pittore Albrecht Dürer e all’editore Theodor de Bry.
Opere citate:
– Eduardo Galeano, “Le vene aperte della America Latina”.
– Edmund De Waal, “Un’eredità di avorio e ambra”.

lo scafista, di Stephanie Coste

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26 marzo 2024

Stéphanie Coste, “Lo scafista“, traduzione di Cettina Caliò, La nave di Teseo, 2022

proposto da Rosa Giusti

di Rosa Giusti

Sono così tante e terribili le notizie dei media sui migranti che attraverso il Mediterraneo tentano di raggiungere il nostro paese affidandosi per la traversata a gente disonesta che spesso li porta alla morte, che proporre al gruppo di lettura -Lo Scafista- non mi convinceva. Un argomento così ripetitivo, pensavo, ha ormai poca presa su noi tutti, assuefatti e quasi anestetizzati emotivamente. Ma “Lo Scafista”, almeno secondo il titolo del testo della Coste, prometteva di trattarlo secondo una prospettiva diversa e mi ha incuriosita.

Effettivamente nel libro compaiono elementi di novità, perché il protagonista, lo scafista Seyoum, capo di un’organizzazione criminale che si occupa di traghettare persone in fuga dalla Libia verso l’Italia, è sì un mostro di crudeltà, ma è anche un uomo. E’ un eritreo con un trascorso personale tragico, la cui storia è anche la storia dell’Eritrea, della guerra con l’Etiopia, della dittatura, delle persecuzioni dei dissidenti e della loro necessità di andarsene altrove. L’autrice si sposta di continuo dai movimentati avvenimenti che precedono la traversata del racconto, all’infanzia idilliaca del bambino Seyoum, sereno e felice in seno ad una famiglia benestante e colta, alla sua giovinezza, quando è teneramente innamorato e promesso sposo della meravigliosa Madhia, ed infine alle torture, alla separazione straziante dai suoi cari, alle sofferenze indicibili subite nel corso dei capovolgimenti politici dell’Eritrea.  Seyoum tenta di fuggire per mare dall’Africa, ma il suo viaggio fallisce e lo riporta in Libia, dove si ferma.  Il dolore patito lo ha trasformato. “Hai sofferto e ora fai soffrire. Marcirai all’inferno” dice a sé stesso sulla spiaggia dove dirige i suoi traffici. Ha fatto della speranza di poveri derelitti, l’anima del commercio, si arricchisce con cinismo, uccide, corrompe, inganna, terrorizza. Ma Seyoum è un malvagio insoddisfatto, estremamente tormentato, si auto distrugge assumendo alcol e droga, cerca la morte. E’ che ha ancora una coscienza, una sensibilità non completamente congelata. Il ritrovamento casuale di Madhia, l’amore della sua vita, tra l’ultimo “carico” dell’imbarcazione fatiscente prossima a partire, innesca un cambiamento nella sua psiche allo sfascio.  Pur consapevole che Madhia non sarà mai più al suo fianco e che lo disprezza pensando erroneamente che lui l’abbia ingannata, decide di dare una svolta alla sua esistenza maledetta:  regala il suo denaro,  si mette in mare assumendo lui stesso il comando della -carretta del mare-  (per giunta in tempesta) che dovrà trasportare in Italia un foltissimo gruppo di persone fra cui  Madhia con  il marito e il figlioletto, e miracolosamente ce la fa, ce la fanno, in discreto numero, ad arrivare a Lampedusa.

Molti elementi del romanzo si possono ritrovare nel recente film – Io Capitano- con il quale c’è stato un confronto. Ma nel libro non c’è solo la tragedia dei migranti, preponderante nel film, c’è soprattutto la storia dello scafista, l’altra parte di umanità coinvolta in queste vicende, di Seyoum incattivito dalla vita e dai traumi accumulati. “Tutte le cose davvero atroci cominciano dall’innocenza”. Questa citazione da Hemingway che la Coste riporta nell’esergo, spiega il senso che vuole dare al suo romanzo. L’Autrice usa un ritmo veloce ed efficace, usa frequenti flash back tenendo vivo l’interesse del lettore e mettendolo di fronte a fatti storici forse poco conosciuti. Tutto ciò è stato ritenuto un merito da parte di molte di noi mentre varie critiche si sono levate da parte di altre che non hanno apprezzato affatto né il contenuto del romanzo, né lo stile, né la struttura narrativa.  

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Breve nota a cura di Teresa Santostasi, dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Un gruppo di lettura, LeggerMente, che esprime la pluralità delle conoscenze, delle riflessioni e delle preferenze di noi lettrici e che ci permette di “leggere anche con gli occhi delle altre”.

Lo Scafista”, racconto finalista del Premio Inge Feltrinelli 2024, proposto da Rosa Giusti che ne ha colto il ritmo incalzante e l’intreccio tra le vite delle vittime e quelle del loro carnefice, dove l’abusato diventa abusante, ha trovato pareri discordi nelle nostre analisi.

Il tema dell’immigrazione, sempre presente nel nostro vissuto con un potente coinvolgimento emotivo, è uno dei temi più divisivi della nostra epoca. L’Autrice rinuncia a raccontare il punto di vista delle vittime, preferendo entrare in quello del carnefice Seyoum.  Qualcuna ha trovato irritante e faticosa l’alternanza di date, cosa invece apprezzata da altre, per il richiamo a ricordi dell’infanzia che permettono di interpretare meglio il presente. “Lo scafista” è stato considerato racconto non banale, caratterizzato da una prosa crudele che non lascia spazio all’immaginazione, del quale è stata apprezzata la brevità pur nella complessità del personaggio Seyoum e dei temi affrontati. Per alcune il racconto ha deluso, non condividendo la posizione assolutoria della scrittrice Stephanie Coste ed il linguaggio povero e frammentario. Si è voluto ricordare che comunque la letteratura è una strada privilegiata per esprimere pareri, aiutandoci soprattutto nei momenti più critici. Si è convenuto che il racconto risulta troppo artificioso e costruito, soprattutto nel finale e nei temi trattati. E’ mancato inoltre il rapporto con la storia, né sono analizzate le cause e le vicende della guerra Eritrea/Etiopia.

Inevitabilmente non abbiamo potuto non citare il testo appena letto di Stefano Massini “Eichmann, dove inizia la notte” da cui emerge che tutte le cose davvero atroci cominciano dall’innocenza ed il confronto con l’ultimo film di Matteo Garrone “Io Capitano”, la cui visione, forse, ha fatto poco apprezzare il racconto.

Sono stati citati:

Garcia Markez  “La Somala

Stefano Massini “Eichmann. Dove inizia la notte

Hanna Arent “La banalità del male

Matteo Garrone. Film “Io Capitano

Figli della favola, di Fernando Aramburu

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27 Febbraio 2024

Fernando Aramburu, “Figli della favola”, traduzione di Bruno Arpaia, Guanda, 2023

proposto da Elisa Cataldi

Di Elisa Cataldi

La storia di due giovani baschi, Asier e Joseba, che, ventenni, vengono mandati dall’ETA in una fattoria francese, in cui si allevano galline, ad addestrarsi alla lotta armata. Lì però vengono dimenticati anche quando dall’ottobre 2011 l’ETA viene definitivamente sciolta. Si snocciola quindi la narrazione esilarante e grottesca dei due “apprendisti terroristi” che, senza armi, senza soldi, mangiando sempre solo galline, sporchi ed affamati, senza conoscere una parola di francese, si ostinano a progettare attentati, ad inventare nuovi commandi armati, abbassandosi a tutti gli espedienti possibili pur di procurarsi denaro, cibo e, possibilmente, anche armi. Una lotta impari fra gli ideali e la nostalgia di casa e delle sue comodità.

La scrittura di Aramburu, la conosciamo è godibilissima, ma il romanzo che a prima vista appare comico, quasi picaresco, lascia alla fine una profonda amarezza non solo per la conclusione drammatica quanto, soprattutto per il ritratto desolante di questi due giovani, due amici alla disperata ricerca di un ideale da seguire, nel vuoto ideologico e affettivo che li circonda. Una gioventù senza prospettive, alla ricerca di un’appartenenza. Convinzioni elevate (gioventù, energia, fede) a fronte di una motivazione inesistente. Due incoscienti, illusi e patetici, inconsapevoli della portata delle proprie azioni (per fortuna solo progettate e mai realizzate), privi di valori e di cultura.

L’autore sottolinea impietosamente la povertà intellettuale dei due (la strage dei congiuntivi !!!), suggerendo a cosa avrebbero dovuto dedicarsi piuttosto che bighellonare per fantomatiche lotte armate!! Le tematiche sono le stesse dell’indimenticabile “Patria”: la lotta armata, i giovani, perfino la pioggia incessante. Qui però il tenore non è più drammatico, bensì satirico e canzonatorio. Lo scrittore prende in giro il terrorismo e chi lo pratica, l’ideologia fanatica e violenta che legittima il crimine. Descrive il male come frutto di stupidità.

Dall’ottobre 2011 l’ETA , in quanto lotta armata è finita. Da quel momento si è imparato (speriamo definitivamente) che i conflitti sociali si risolvono nelle sedi istituzionali, non per le strade a colpi di arma da fuoco! E nello stesso tempo, Aramburu ha un profondo rispetto delle vittime. In un’intervista che lo scrittore ha rilasciato al giornale “La Repubblica” nel luglio 2023, in occasione della “Rassegna del libro possibile” tenutasi a Polignano (BA), Aramburu afferma che non avrebbe mai potuto usare questi toni comici e irriverenti se l’ETA non fosse finita e se i due protagonisti della storia in effetti, non avessero commesso alcun crimine. Nella stessa occasione, interrogato circa la sua opinione sulle responsabilità degli adulti nello smarrimento dei giovani, afferma che i giovani meritano affetto e rispetto. Non hanno colpa del mondo che gli abbiamo lasciato, inquinato, consumista e corrotto. “… li educhiamo male e poi biasimiamo la loro cattiva educazione. Forse sarebbe preferibile lasciare loro un esempio migliore !!!”.

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Breve nota a cura di Rosa Giusti, dopo l’incontro del gruppo di lettura

Sono subito emerse perplessità riguardo al valore di questo romanzo uscito subito dopo il – Patria – dello stesso autore, che ci aveva conquistate tutte. Alcune ne hanno apprezzato la prosa picaresca, ironica e scanzonata con cui vengono descritti i  due protagonisti ventenni baschi, scalpitanti in attesa di entrare a fare parte armata dell’ETA e decisi a lottare da soli quando l’ETA si scioglie. Richiami  per libere associazioni sono stati fatti a “Don Chisciotte e Sancho Panza”, all’”Armata Brancaleone”, a “Stanlio e Ollio”, e ancora al “Deserto dei Tartari” e ad “Aspettando  Godot”.  Elogi all’Autore per essere riuscito a far ridere sulle attività dell’ETA, senza tuttavia riuscire a produrre una satira graffiante.  E’ prevalso comunque il giudizio negativo su un’opera, si è detto, debole nella trama e perciò ripetitiva e noiosa, tale da  addormentare addirittura! Il confronto con “Patria” ha sicuramente nociuto ad Aramburu e se pure la sua “mission” (dichiarata apertamente da lui in alcune interviste) di contrastare l’ETA attraverso la  scrittura è stata da tutte apprezzata in generale, non si è potuto fare a meno di rilevare che nello specifico di “Figli della favola”, la forma letteraria del romanzo non è apparsa appropriata. L’opera tradisce l’evidente intento dell’Autore e ciò, artisticamente, ha costituito un limite.                                                               Nel il resto dell’incontro, il gruppo si è soffermato sull’analisi  dei protagonisti, emblema di un tipo di gioventù che, a tutte le latitudini,  si lascia facilmente adescare da organizzazioni mirate alla realizzazione di fini criminosi di varia natura, usando gli strumenti della violenza e del terrorismo e quindi uccidendo persone innocenti e inermi.  Aramburu  descrive i suoi terroristi in erba, non a caso, come persone ignoranti, prive di senso morale e di senso critico, per niente intelligenti.  Due ragazzi che non hanno prospettive di vita, non hanno legami affettivi saldi e, come bambini attratti dalle armi, vogliono “giocare alla guerra”, costi quel che costi, per  “salvare la patria”;  sostanzialmente per rifugiarsi in una struttura ed acquisire così un’ identità, per giunta, “eroica”.

Considerazioni personali, legate alla propria giovinezza e all’attualità,  hanno “riscaldato” la nostra discussione.  Ne è scaturito infine un senso di amarezza verso quella percentuale di giovani che, come i due eroi mancati di Aramburu, non ha scrupoli  nei confronti delle vittime, ma è in realtà vittima a sua volta e il sogno eroico si rivela un fallimento, come si evince dalla conclusione del romanzo.  La responsabilità degli adulti nei confronti di questi giovani “persi”  è il sottinteso non scritto. Dal romanzo letto, con più o meno diletto, sono quindi derivate interessanti riflessioni.                        

Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa

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23 Gennaio 2024

Susan Abulhawa, “Ogni mattina a Jenin“, traduzione di Rota Sperti, Feltrinelli, 2013

proposto da Adriana Pepe

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Breve nota a cura di Patrizia Ripa, dopo l’incontro del gruppo di lettura

Da un’analisi fatta insieme sono emerse riflessioni interessanti e condivise da tutte. Il libro è stato apprezzato all’unanimità ed ha rappresentato un motivo di studio e di approfondimento della questione israelo-palestinese, soprattutto alla luce di quanto stiamo vivendo in questo drammatico momento storico. Adriana Pepe ha introdotto il testo e ha sottolineato che si tratta di una interessante testimonianza in cui l’Autrice riesce mirabilmente a fondere elementi della sua vita personale con quelli della storia della Palestina, descrivendo in modo struggente questo popolo martoriato e privato di tutti i suoi diritti, delle sue terre, della propria identità. Ne è seguita una riflessione su quanto sta accadendo con la guerra attuale in cui il popolo ebraico da vittima è passato ad essere carnefice e si è fatto riferimento alle radici storiche di questa lotta che sembra senza fine.

Sono stati evidenziati i molti temi affrontati nel romanzo: il tentativo di riconciliare questi due mondi troppo lontani, i rapporti familiari – tra padre/ figlio e madre/ figlio- e tra i fratelli, Yussef e Isma’il/David, poi il tema dell’abbandono, del lutto, del matrimonio, del bisogno di condividere la storia con la propria figlia.

Attraverso la voce di Amal sono narrate le drammatiche vicende dei vari personaggi della sua famiglia che vivono l’abbandono della casa per fuggire come profughi a Jenin. E’ stata inoltre sottolineata l’importanza delle figure femminili, dalla madre Dalia, alla figlia Amal e la nipote Sara e poi Fatima e Jolanta. Tutte rivestono un ruolo significativo.

Molte sono state concordi nell’affermare che sarebbe stato opportuno terminare il libro con la morte di Amal, escludendo l’ultimo capitolo, lasciando un po’ più di spazio all’immaginazione del lettore. Infine forse il più grande apprezzamento condiviso da tutte è stato il fatto che l’Autrice, pur essendo di parte, cerca di superare il dualismo ebreo–palestinese. Pur trasmettendoci tutta la sua rabbia e il dolore per il suo popolo e per la sua famiglia, non si esprime mai in termini di odio e non cerca i colpevoli tra gli israeliani, ma tenta di sviluppare e far comprendere al lettore anche le loro motivazioni.

Libri a cui si è fatto riferimento: Amos Oz, Storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2015; Marco Travaglio, Israele e i palestinesi in poche parole, PaperFIRST by il fatto quotidiano, 2023; Azar Afisi, Leggere Lolita a Teheran, Adelphi,2004; S. Yizer, La rabbia del vento, Einaudi; Benny Morris, Vittime, Rizzoli, 2001; Yasmina Kahdra, L’Attentato, Sellerio e l’articolo tratto da Repubblica del 23 gennaio 2024, Diario da Gaza, la testimonianza.

Elena lo sa, di Clara Pineiro

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12 Dicembre 2023

Clara Pineiro, “Elena lo sa“, traduzione di Pino Cacucci, Feltrinelli 2007

proposto da Elisa Cataldi

di Elisa Cataldi

Difficilmente ascrivibile al genere dei gialli o dei noir come viene proposto, si tratta di un romanzo molto atipico, introspettivo, toccante. Una storia molto intensa, struggente a tratti feroce che non indulge a sentimentalismi, assolutamente priva di retorica.

l corpo di una ragazza, Rita, viene trovato impiccato al campanile della Chiesa. Le indagini vengono ben presto chiuse e la disgrazia etichettata come suicidio, ma Elena, la madre con la quale la ragazza viveva, è certa che i fatti stiano diversamente perché quel giorno pioveva e Rita col temporale non si sarebbe mai avvicinata ad un campanile, per paura dei fulmini. Elena comincia allora una sua indagine personale, ma il Parkinson le impedisce di muoversi come vorrebbe, quindi va a chiedere aiuto ad Isabel, una donna che da Rita una volta è stata aiutata e quindi dovrebbe avere una sorta di debito da pagare. E qui la storia si fa intensissima e propone risvolti assolutamente inattesi.

E’ un romanzo molto ricco di spunti di riflessione, che affronta tematiche fortemente coinvolgenti con grande lucidità e coraggio. Un rapporto fortemente conflittuale, eppure strettissimo tra una madre malata di Parkinson e totalmente centrata sulle sue esigenze ed una figlia che mal sopporta la vicinanza e l’obbligo di accudirne il  corpo malato. IL rapporto tra una madre fragile nel corpo e una figlia fragile nell’anima. Tra le due non intercorre alcuna tenerezza, alcuna manifestazione di amore. Elena è il suo Parkinson, l’inferno personale di un corpo che deraglia eppure esprime fino all’ultimo una gran voglia di vivere. Rita invece, la figlia bigotta, cresciuta nella superstizione e nel pregiudizio, vive la sua realtà come claustrofobica e senza speranza, in una società gretta ed ipocrita. Vi si parla della cura di un disabile e dell’umiliazione della burocrazia. Viene poi affrontato il tema dell’aborto e della maternità non scelta ne’ desiderata, dell’istinto materno che non è scontato, non è dato per natura.

Tanti gli argomenti che ci interrogano e ci coinvolgono, una storia che ti prende e cattura la tua attenzione fino all’ultimo rigo. Un romanzo avvincente anche se durissimo e a volte inquietante

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Breve nota a cura di Maria Grazia Toma dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Il titolo nella versione originale è “Elena Sabe” Elena sa. Sa tutto, questo suo sapere è affermato con protervia in tutto il racconto come un ritornello fino al finale che sembra scalfire la sua determinazione. Il racconto ha suscitato in tutte un sentimento di angoscia e quasi di repulsione per la sua crudezza, per la sua mancanza di speranza. La resa stilistica cruda e fredda senza un minimo coinvolgimento emotivo è stata molto apprezzata mentre ha creato un certo fastidio in alcune. La mancanza di punteggiatura rende perfettamente l’urgenza della protagonista di trovare qualcuno che la aiuti a trovare la sua verità prima che la malattia la immobilizzi. Elena ha bisogno di un corpo che agisca per lei. La lentezza e la ripetitività della frase “Elena lo sa” descrivono la malattia che blocca i movimenti ma non il pensiero; l’Autrice descrive la malattia in maniera puntuale e particolareggiata. Elena, affetta da Parkinson, sa come funziona la malattia con i suoi ritmi lenti che la condizionano, la governano. Elena sa come Rita, la figlia, sia persa in fobie, ossessioni e dogmi di cui non conosce il significato ma su cui costruisce la sua vita seguendo le orme del padre. Elena sa che Rita ha troppa paura dei fulmini e dei campanili per cui non può essersi suicidata impiccandosi su un campanile durante una tempesta. Elena sa che Isabel, l’altro personaggio femminile, ha un debito di riconoscenza nei suoi confronti e la potrà aiutare. In realtà questo debito è un peso su Isabel. Rita ed Elena la hanno costretta a non abortire senza ascoltarla, la figlia nata è frutto della violenza del marito che voleva un figlio con il suo compagno. Su questa vita di sicurezze e egoismo di Elena si abbatte la mannaia della morte di Rita, che ha sempre vissuto nell’accudimento della madre con sentimenti di repulsione. Quando il dottore le prospetta un aggravamento importante della malattia della madre non lo accetta . Tra madre e figlia vi è un rapporto conflittuale, estremo senza un barlume di condivisione, di empatia. Sono due solitudini egoistiche; l’altro non viene ascoltato, riconosciuto. Il non detto prevale. Elena nel finale ricorda di non aver mai avuto un atto di amore per la figlia, ma pretende che la figlia l’accudisca; lei vuole vivere anche a dispetto della malattia, vuole usare gli altri così come è stata usata dal marito. Il rapporto tra genitori e figli, in particolare con il loro corpo, può essere particolarmente difficile e non accettato da tutti; nel libro di F. Roth “Patrimonio” questo argomento viene affrontato. Questo rapporto tra Elena e Rita, malato, non è legato alla comparsa della malattia ma preesisteva. Questa è una famiglia tossica in cui i rapporti sono avvelenati dalla solitudine che si trasforma in odio. Una madre anaffettiva centrata su se stessa che succhia dagli altri tutto il possibile. Un padre isolato incapace di sentimenti ma determinato nelle sue idee; Rita che cresce da sola ingabbiata in credenze Anche Isabel non ha alcun rapporto con la figlia, una famiglia tossica, anche questa, basata sulle apparenze.

Un romanzo crudo, disturbante, che fa emergere dal silenzio molti tabù. La malattia descritta nei suoi aspetti più ripugnanti, specie negli anziani il cui declino fisico e mentale è inevitabile e che richiede una dedizione quasi assoluta a cui Rita non è in grado di rispondere, non può sopportare ulteriormente. La visione del futuro diventa per lei inaccettabile.

Nel libro emerge anche il tabù della maternità che non può essere subita dalla donna e che non costituisce il necessario completamento. La violenza sulle donne emerge in tutte le sue forme sia fisica che morale. Su tutto sovrasta una società ipocrita, insensibile ai bisogni dei più disperati, che si attiene alla forma, alle apparenze. Un libro che dà fastidio, perché troppo realistico e senza alcuna speranza.

Il silenzio delle ragazze, di Pat Barker

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21 novembre 2023

Pat Barker, “Il silenzio delle ragazze”, traduzione di Carla Palmieri, Einaudi 2019

proposto da Vanda Morano

di Vanda Morano

In questo romanzo l’autrice vuole rompere il silenzio delle donne dando voce a Briseide che narra in prima persona la sua tragica vita sconvolta dalla guerra. Viene quindi superata la omerica visione androcentrica grandiosamente epica per entrare nella quotidianità degli eventi. Il racconto autobiografico inizia con la conquista di Lirnesso da parte degli Achei. Briseide assiste allo sterminio della sua famiglia e alla distruzione della sua città. Siamo agli antipodi della sobrietà di Omero; la guerra è violenza, sangue, rapacità, sadismo e stupro. Le donne assistono impotenti e vengono condotte negli accampamenti achei per essere assegnate ai guerrieri. Briseide, bella e diciannovenne, viene data ad Achille eroe “macellaio”, carnefice della sua famiglia. La narrazione degli eventi è parallela a quella omerica, i personaggi però presentano tutte le loro umane debolezze: dietro la guerra, dietro il mito c’è la storia vera in linea con la sensibilità moderna. Le donne sono unite in una sorellanza dolorosa, domina in loro il senso di un destino a cui non possono sottrarsi. Briseide non è la eroina di Ovidio infelice perchè abbandonata, si muove in spazi pervasi di sangue, ferite e topi. Rinuncia alla fuga, consapevole di non poter cambiare il suo percorso di vita. Gli uomini sono rozzi, si fanno servire chiusi in un gretto maschilismo. Achille è un ossimoro con il suo penoso edipico amore per la madre, con una fragilità accompagnata da una sete di sangue e di vendetta.

Tutti protagonisti della guerra di Troia sono indagati nei più intimi recessi dell’animo. C’è Patroclo con la sua sensibilità, amico, complice e forse amante di Achille e sostegno di Briseide. C’è Agamennone prepotente e spergiuro. C’è il fragile vecchio Priamo. Ci sono tante figure femminili. La storia termina con la fine della guerra e il compimento del destino di Achille che muore. L’happy end prevede che Briseide si annidi in un tranquillo ruolo di moglie di Alcimo “un pò sciocco” ma “brava persona” perché “c’è ben di peggio a questo mondo che sposare uno sciocco”.

Considerazione sensatamente antieroica. Di recente provengono, soprattutto dalla cultura anglosassone, riscritture dei classici con romanzi che hanno comunque un valore divulgativo. Si cala il passato nel presente, lo si riplasma alla luce di culture diverse. C’è anche una volontà di appropriazione femminista del mito per attribuire alle donne un ruolo nella storia. Queste riscritture sono legittime? La riscrittura è un tradimento? I miti sono narrazioni complesse, meravigliose che mescolano l’umano e il divino, lo straordinario e il quotidiano. Nel mito i personaggi sono statuari. In quasi tutte le riscritture il quotidiano spegne la straordinarietà.

Il libro di Pat Barker è una dignitosa operazione commerciale in cui manca però la capacità di evocare, di alludere che è della grande letteratura. Il detto prevale sul non detto nella descrizione dei personaggi e di alcune situazioni. La lettura comunque sollecita riflessioni profonde sulla guerra, sulla condizione femminile e, soprattutto, può farci nascere il desiderio di tornare ai classici, quelli veri che “parlano delle cose più importanti e le raccontano attraverso la bellezza”

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Breve nota a cura di Elisa Cataldi dopo l’incontro del gruppo di lettura.

I giudizi delle Amiche del nostro gruppo di lettura sono stati molto diversi, ma la maggior parte di noi lo ha trovato banale, inutile, secondo qualcuna addirittura noioso. Trasformare un poema epico in un romanzo di facile fruizione, nega la musicalità, la solennità, la poesia del verso; nulla dice del ritmo, dell’intensità, della teatralità dell’opera originale. Nessuna emozione. Quasi una “versione in prosa” del poema omerico! Racconta il femminile con uno sguardo tutto e solo femminile. La sopraffazione delle donne, la mercificazione del loro corpo, la loro “vittimizzazione secondaria”,  forse una “sindrome di Stoccolma”, la sorellanza e la solidarietà nella sventura, e poi gli stereotipi degli eroi, sempre solo uomini, di una virilità che non conosce la paura, la viltà, il pianto. Alcune hanno trovato fastidioso il continuo passaggio dell’io narrante dalla prima (Briseide) alle terza persona. Meglio sarebbe stato forse un saggio, un’opera sostenuta da una più attendibile documentazione sulle donne dell’epoca! E’ stato evidenziato il recente proliferare di opere simili e prevalentemente di autori di lingua anglosassone, tanto da far pensare ad un’operazione commerciale di tendenza e di scontato successo.

Ad alcune di noi invece il romanzo (perché di romanzo si tratta, liberamente tratto dall’”Iliade” di Omero e da “Heroides” di Ovidio) è piaciuto e anche molto. Una lettura godibilissima su personaggi e situazioni conosciute tanto tanto tempo fa, nella primissima giovinezza e poi mai più riprese. E non solo nomi, ma una acuta descrizione dei caratteri che ce li rende indimenticabili come la dignità dei vecchi padri che vanno a reclamare i loro figli (Il sacerdote di Apollo che chiede ad Agamennone la restituzione di Criseide e poi Priamo che va da solo e disarmato nell’accampamento di Achille a chiedere il corpo di Ettore). Opere da alcune di noi, addirittura mai lette perche’, noi lo dimentichiamo spesso, i poemi omerici fanno parte di una formazione classica tutta italiana, un back ground che spesso diamo per scontato e che invece in culture altre, non viene insegnato nelle scuole ma studiato solo da alcune èlite che scelgono di occuparsene. Spesso la nostra autoreferenzialità guarda con diffidenza a canoni culturali diversi portando a difficoltà di rapporti tra culture. E questa è la ricchezza del nostro gruppo di lettura che vede la presenza anche di componenti provenienti da altre culture, senza dei quali forse ci sarebbero mancati questi importanti spunti di riflessione. E’ stato poi ricordato che, anche in questo romanzo, le donne che non hanno diritto di parola, tessono e ricamano. Si esprimono così: Elena attraverso il suo arazzo, racconta! Questa riflessione, tratta dal libro “Voci di donne nell’epica” di Cecilia Nobili, ci ha fatto riflettere sul fatto che in effetti le parole “poesia, rapsodia “vogliono dire “cucire insieme” e che la parola “testo” viene dal verbo tessere.

La lettura di questo romanzo inoltre, è coincisa con la lettura teatrale delle “Troiane” di Euripide che il nostro gruppo ha cominciato ad affrontare con grande interesse e partecipazione; esperienza che ha intenzione di continuare con la lettura di altre opere del teatro classico

Testi citati durante l’incontro:

  • Iliade   di Omero
  • Lettere di eroine di Ovidio
  • Cassandra di Christa Wolf
  • Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso
  • Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar
  • La canzone di Achille di di Madeline Miller
  • Voci di donne nell’epica di Cecilia Nobili
  • Omero, Iliade  di Alessandro Baricco
  • Odissea di Nikos Kazantzakis

Il Canto del Fiume, di Lorena Salazar Masso

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10 ottobre 2023

Lorena Salazar Masso, “Il canto del fiume“, traduzione di Giulia Zavagna, Ed. Sellerio, 2023

proposto da Adriana Pepe

Breve nota a cura di Teresa Santostasi dopo l’incontro del gruppo di lettura

Esta herida ilena de peces” (Questa ferita piena di pesce)

Malgrado la biografia di Lorena Salazar Masso sia breve per la giovane età dell’Autrice, nata in Colombia il 1991, questo suo romanzo di esordio è stato apprezzato e tradotto in diverse lingue. Esplora, con una scrittura fluida, una seducente cadenza musicale e crudezza realistica, problematiche che pongono diverse domande: la questione razziale, il tema dell’adozione e della maternità, dell’ambiente, la guerra civile in Colombia, la vita nella follia della violenza umana, in un clima di crescente violenza. Si diventa “madre” soltanto se si porta in grembo il proprio figlio? Salazar dà voce ad una madre adottiva, bianca, e alle sue riflessioni durante il percorso lungo il fiume Atrato, attraversando la Colombia per portare il figlio adottivo, nero, a conoscere la madre biologica e molto probabilmente, a lasciarglielo. A scegliere, comunque, sarà il bambino! Qualcuna ha posto a confronto la macchinosa burocrazia europea per le pratiche di adozione e la apparente “semplicità” delle soluzioni sudamericane che considerano l’adozione di bambini come “figli dell’anima”. Ma si è anche osservato, con qualche perplessità, che ne “il canto del fiume” la maternità è vissuta tragicamente. Ne è un esempio l’episodio dove la giovane madre muore di parto insieme al suo neonato. Qualcuna ha associato il racconto all’opera teatrale di B. Brecht “Il cerchio di gesso del Caucaso” (1944/45) ispirata da un’antica leggenda orientale, dove due donne, madre biologica e balia, si contendono un bambino che, alla fine, il giudice assegnerà alla balia che, per amore del bambino inscritto dal giudice in un cerchio di gesso, preferirà arrendersi piuttosto che fargli del male. Si è notato che l’io narrante, la madre adottiva, non ha bisogno di chiamare per nome il bambino, è il suo bambino! Bella la recensione di Monica Acito in “L’altra madre” (10/10/2023) che parla del “Canto del fiume”, come di un romanzo che “inganna” il lettore facendogli credere che per respirare non servono polmoni, ma branchie! La scrittura di Salazar, osserva Acito, “antropomorfizza il fiume, dandogli fianchi e seni e denti di foglie; la madre ed il bambino diventano creature con le squame, nate dal letto del fiume”. Il fiume di per se è un potente simbolo di vita, che qui, associato al viaggio, acquista dimensione di personaggio; il contrasto tra la lentezza del fiume ed il sentimento crescente della paura sono l’espediente per non arrivare mai a destinazione.  E’ stato sottolineato da tutte il legame di sorellanza che si stabilisce con le altre donne, la passeggera Carmen Emilia, la rude capitana del battello, nera come suo figlio e la madre biologica, Gina, che l’amore per il bambino unisce. Salazar lascia al lettore la capacità di immaginare, permettendogli di ricostruire ciò che l’Autrice racconta.  Il canto tradizionale di un alabao chiude il romanzo dove il viaggio più lungo sembra essere quello della maternità.

La foglia di Fico. Storie di alberi, donne, uomini. Di Antonio Pascale.

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6 giugno 2023

Antonio Pascale, “La foglia di Fico. Storie di alberi, donne, uomini“, Ed. Einaudi 2021

proposto da Roberta Ruggieri.

di Roberta Ruggieri

Il libro mi è piaciuto, la sua lettura mi ha procurato , come dice Cercas, “piacere e conoscenze”.

Pascali è un agronomo che, dal suo campo di lavoro, fa delle incursioni nella letteratura. Il suo campo è il mondo vegetale, che rispetta e vede in uno stretto rapporto col mondo degli uomini, rapporto che oggi più voci dicono fondamentale.

Il libro è formato da più racconti, ognuno intitolato ad una pianta, molto ben illustrata da Stefano Faravelli e presentata nelle sue caratteristiche fondamentali. Da queste caratteristiche si “ramificano “i temi della vita: l’amore, l’amicizia, il dolore, la gioia, stati d animo visti nell‘infanzia, nell‘adolescenza, nella maturità. L’io narrante è l’Autore stesso, che altri non è che l’uomo contemporaneo che, malgrado le tante conoscenze ed esperienze accumulate, o forse proprio per queste, è sempre più insicuro, dubbioso e senza certezze assolute. Accanto a lui una galleria di personaggi molto ben disegnati, raccontati con humor, registro che è presente in molte pagine e a volte si intreccia alla nostalgia.
La prosa apparentemente semplice e discorsiva, in realtà esprime concetti molto densi, presentati all’ interno di situazioni quotidiane. L’intento divulgativo, dove c’è, è sempre venato di verve campana, in un Autore che ritiene la scienza e le sue ricerche patrimonio di tutti e come tali da conoscere. Molte le citazioni, ironicamente riassunte nella pagina intitolata “officina”; vanno da brani musicali, testi scientifici, capolavori letterari, mentre immagini poetiche si intrecciano a termini botanici e a riflessioni sociologiche. Buona e originale prova di un Autore meridionale che, con altri intellettuali è impegnato in vari livelli, sempre guardando al sud come luogo dell’anima da cui partire, senza stereotipi e con consapevolezza.

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Breve nota a cura di Vanda Morano dopo l’incontro del gruppo di lettura

Martedi 13 giugno ci siamo incontrate presso la sede dell’Adirt per parlare del libro “La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini” di Antonio Pascale. La discussione si è rivelata molto animata e pertanto stimolante. Alcune ritengono originale l’escamotage di partire da dieci piante per raccontare storie (autofiction le definisce l’autore ) e temi fondamentali della vita. Pascale guarda il mondo vegetale con acuta prossimità e narra, talvolta anche con ironia, se stesso, l’amore, lo sconforto, l’insicurezza, l’amicizia, il rito di passaggio che comporta la morte e la rinascita. Lo stile, è stato detto, è semplice ma denso di significato.

Ad un gradimento entusiastico del libro si è contrapposta una valutazione più tiepida in alcuni interventi e una di rifiuto totale in altri. Si è sottolineata la mancanza di una unità di fondo e la presenza di tecnicismi pedagogicamente trasmessi che, insieme alle numerose citazioni letterarie, psicologiche, sociologiche e tanto altro, rendono l’effetto narrativo poco efficace.

Interessanti richiami alla storia dell’arte, alla Bibbia e alla medicina hanno arricchito la discussione.

Tutte le intervenute hanno sottolineato l’incanto degli acquerelli di Stefano Faravelli che emergono da antichi fogli manoscritti. Meraviglioso il frutto spaccato a metà e poggiato sulla foglia di fico! Meravigliosi tutti i disegni che sono essi stessi ‘racconti’!

L’incontro è terminato con un allegro arrivederci. Ci rivediamo dopo solo una settimana sulla terrazza della Officina degli Esordi in via Francesco Crispi per fare una valutazione complessiva sui libri letti in questo anno

Libri citati durante la discussione:

  • La città distratta” di Antonio Pascale.
  • La manutenzione degli affetti” di Antonio Pascale.
  • Il racconto onesto. 60 scrittori, 60 risposte” di Goffredo Fofi.
  • Un frammento alla volta. Dieci lezioni di archeologia” di Marcella Frangipane.
  • Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art di Victor” di I. Stoichita.

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Ancora una breve nota di Luciana Cusmano dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Facendo seguito al nostro incontro di lettura di martedì 6 giugno, ho annotato alcuni articoli usciti sui giornali negli ultimissimi giorni, a riprova della larga diffusione data dai media in genere al rapporto natura/uomo, diffusione che rimonta ormai ad almeno un decennio, anche se oggi non potrei più citare (non li avevo appuntati) i nomi di quanti ne sono stati protagonisti:

  • G. Barbera, “La memoria del giardino“, in Domenica del Sole24Ore,11 giugno 2023
  • L. Tortolini, “Ma a cosa servono gli alberi?“, in Robinson del 10 giugno 2023
  • Festival delle culture del paesaggio, S.Severo (FG), giugno 2023

In particolare, l’articolo di Barbera é una recensione del bel libro “Il paesaggio in cammino” (Edifimi 2023) di Oliva di Collobiano, storica paesaggista che, insieme con Ippolito Pizzetti, forse il primo titolare sulle pagine del Sole24ore e dell’Espresso (in anni ormai lontanissimi), di una rubrica settimanale dedicata ai giardini, hanno contribuito a diffondere in Italia l’interesse per la natura – in tutte le sue forme ‘verdi’- nel rapporto con la specie umana. Su quegli stessi giornali il loro posto fu preso da Pia Pera, originale slavista approdata con molto successo alle stesse tematiche. Antonio Pascale, ottimo, ma non altrettanto originale nella scoperta del tema, divulgatore scientifico si è servito anche di note ricerche di stampo antropologico, etnografico, mitologico (v. le molte edizioni recenti delle ‘Metamorfosi ‘di Ovidio).

Fermo restando il mio mancato gradimento per le suggestioni filosofiche sparpagliate nel testo, l’intreccio tra generi diversi (in questo caso letteratura scientifica, autofiction, suggestioni new age)  è stato largamente apprezzato nell’ambito dello stesso Premio Strega in un passato molto recente, allorquando il libro di genere biografico dedicato da Emanuele Trevi ai suoi amici Pia Pera e Rocco Carbone è entrato anch’esso nella famosa cinquina. 

La figlia unica, di Guadalupe Nettel

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2 Maggio 2023

Guadalupe Nettel, “La figlia unica”, Ed. La Nuova Frontiera, 2020

proposto da Rosa Giusti

di Rosa Giusti

Contraddicendo una prosa  scorrevole, asciutta, scientifica, asettica ed estremamente razionale, i fatti raccontati in prima persona dall’autrice (siamo nella Città del Messico dei nostri giorni) sembrano accadere al di fuori di ogni controllo e previsione.

Alina, l’amica del cuore della narratrice Laura, partorisce  una bambina destinata, secondo i medici, a morire al momento della nascita. E invece la neonata Inès sopravvive e si evolve, nonostante i gravissimi deficit cerebrali. Alina “si tuffa in un amore abissale, illogico, incomprensibile” e la cura in modo esasperato, scoprendosi  una persona diversa da quella che credeva di essere. L’autrice,  la segue in questa tragedia, passo passo, senza modificare mai il suo stile di scrittura e dando perciò,  ad alcuni lettori, un’impressione generale di superficialità.  Accanto a questa maternità “unica”,  la Nettel dà spazio ad altre storie di relazione madre-figlio: a quella di Laura con sua madre, molto nella norma se  riferita alla  generazione precedente, con caratteristiche di dedizione assoluta alla prole e conseguente rinuncia ad ambizioni lavorative; a quella con Nicolas, una forma di maternità non biologica. Il bambino, casuale vicino di casa, è oppresso da un grave disagio familiare e ha sintomi rilevanti di malessere. Laura, con delicatezza e tatto, anche prendendosi cura della di lui madre,  lo accudisce, lo ascolta, gli propone attività interessanti;, a quella della baby sitter di Inès, che si comporta con eccezionale competenza e si attacca visceralmente alla piccola, per colmare i suoi personali bisogni affettivi, rasentando una relazione  patologica; alla genitorialità nel mondo animale, rappresentato dai piccioni che hanno nidificato sul terrazzo di Laura e che covano e allevano con uguale diligenza i loro pulcini e un “alieno”, un cuculo che, come si sa, non riesce a non procreare, ma delega ad altri l’impegno della cura (parassitismo di cova).

In coda al romanzo si può vedere, oppure no, un  accenno alla formazione di quella che, secondo una terminologia in voga, si definirebbe  “nuova famiglia”, ovvero  due madri gay, Laura e la madre di Nicolas, che segnano un’altra maniera di essere genitori. Tutto è  all’insegna dell’imprevedibilità degli eventi. Solo i tarocchi che Laura ama consultare, paiono saper prevedere…  I personaggi del libro sono perciò costretti a sempre nuovi adattamenti e a rivedere il senso stesso dell’esistenza.

Il Messico del romanzo, modernissimo e avanzato, sulla scia del modello statunitense, lascia fuori i gravi problemi, anche sanitari, delle disuguaglianze sociali e della piaga del narcotraffico.  Superficialità? Semplicemente, la Nettel ha rappresentato il “suo” mondo focalizzandosi su temi che ha ritenuto interessanti e che effettivamente sono oggi estremamente sensibili, anche nel nostro paese.

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Breve nota a cura di Tonia Lamanna dopo l’incontro del gruppo di lettura

Il libro ha suscitato alterni giudizi che hanno comunque attivato, tra le componenti del gruppo di lettura presenti, una discussione interessante ed un confronto vivace. Da tutte lo stile narrativo è stato descritto – ma diversamente apprezzato – lieve, “scioglievole”, leggero, nell’affrontare argomenti anche profondi e dolorosi, ma per alcune l’Autrice messicana è risultata decisamente poco rappresentativa di una letteratura latino-americana attesa come maggiormente “identitaria”. E’ stato citato in merito il giudizio di Julio Cortazàr che indica soprattutto nelle raccolte di Racconti il carattere nazionale della produzione letteraria di Guadalupe Nettel. Per altre invece la scrittura è apparsa legittimamente quella di una Autrice relativamente giovane, cosmopolita, integrata nella vita di una città moderna – capitale della sua nazione, il Messico – segnata dalle tante contraddizioni sociali, culturali, professionali e istituzionali, tipiche di un mondo ormai globalizzato.   

Il tema inizialmente individuato come emergente è stato quello della genitorialità/maternità, declinato nelle varie forme caratterizzanti i diversi personaggi femminili, percepiti  – da chi ha colto nel romanzo un intento prevalentemente saggistico – come paradigmatici di categorie psico-sociologiche: Laura (l’io narrante della vicenda alterno al racconto in terza persona) che ha rifiutato radicalmente di generare figli; Alina l’amica che sceglie caparbiamente di averne, ricorrendo anche alla fecondazione assistita; Doris, la vicina di casa, “madre per caso” depressa; la madre di Laura segnata dal rispetto del ruolo tradizionale subìto di moglie e madre di famiglia; Marlene la bambinaia inizialmente definita “patologica” e poi meglio inquadrata nel fenomeno del “parassitismo di cova” che l’Autrice aggancia alla sua diretta esperienza domestica del nido di colombi “usurpato” sul suo balcone dall’uovo del cuculo. L’accudimento altrettanto sollecito e disinteressato da parte della coppia di volatili nei confronti del piccolo “diverso”, da lei osservato e descritto nel romanzo, introduce nel gruppo di lettura riflessioni significative sulle molteplici forme di affiliazione tra quelle culturalizzate piuttosto che “naturali”. Il riferimento al mondo animale ha quindi fatto emergere la differenza tra maternità biologica e relazioni familiari non “di sangue”: come il singolare rapporto di affetto e complicità che progressivamente s’instaura tra Laura e l’inquieto e sofferente Nicolas, figlio di Doris; il tema dell’accudimento come accoglienza e accettazione coraggiosa e incondizionata della alterità; la genitorialità come percorso di crescita, trasformazione e conoscenza di sé; la solidarietà e la forza delle coppie ma soprattutto delle donne  che condividono esperienze di vita e si sostengono vicendevolmente nella condizione complessa della cura e crescita dei figli, soprattutto di quelli “unici”, speciali – per motivi psico-fisici o genetici – come nel caso della piccola Ines del racconto.

Il tema della “sorellanza” si è quindi aggiunto al dibattito collettivo: donne che fanno “squadra” per scendere in piazza e protestare contro le violenze sessiste di una cultura messicana fortemente machista; donne, in maggioranza, le professioniste coinvolte in tutti i luoghi di cura frequentati dalla coppia Alina-Aurelio in cerca di risposte ai bisogni  “eccezionali” della loro bimba Ines. Donna è anche la persona che alla fine del romanzo sembra toccare le corde  erotico-sentimentali più intime di Laura: una forzatura per qualche lettrice del gruppo, per altre un’apertura ammiccante ad un’ulteriore probabile scelta anticonformista del personaggio “Laura”. Un personaggio contraddittorio, il suo, questo sì tipicamente “messicano”, che fin dall’inizio appare oscillante tra opzioni esistenziali estremamente razionali, volontaristiche, ipercontrollanti le proprie scelte di vita  e la propria fertilità (fino al legamento delle tube per sottrarsi a qualsiasi casuale procreazione), credenze divinatorie  ataviche e irrazionali (affida alla cartomanzia dei Tarocchi la previsione del futuro della sua amica Alina) e l’attrazione per la provvisorietà del vivere  scoperta e apprezzata durante i suoi numerosi viaggi in Oriente a contatto con la dottrina buddista dell’impermanenza.

Per questo motivo il romanzo è apparso ad una buona parte delle lettrici espressione di una letteratura al femminile per un pubblico femminile – col rischio di una forte deminutio dell’afflato universale – in quanto enumera, con un linguaggio più accattivante che profondo, una serie di problematiche d’attualità di facile presa su un vasto pubblico popolare (tanto da essere definito un’opera pop) “al femminile”. Nel confronto con il pathos delle opere di Antonella Lattanzi e Ada d’Adamo dedicate alla maternità e alla nascita di figli con disabilità, l’approccio di Guadalupe Nettel è stato percepito perciò meno vissuto interiormente e meno convincente. Per qualche altra lettrice il richiamo ad  esperienze personali già vissute e storicamente ampiamente superate ha lasciato  sentimenti di insoddisfazione e complessiva delusione tanto da dedicarsi durante la lettura ad un’analisi prevalentemente formale, di tipo “architettonico”, del testo rappresentato come una serie di cubi all’interno dei quali guardare ma non comunicanti tra di loro…in questo richiamandosi alle suggestioni del saggio Il grande museo vivente dell’immaginazione di Matteo Pericoli.

In conclusione è stata riconosciuta, come filo conduttore complessivo del testo, la valorizzazione della forza vitale e superiore dell’amore che, declinata nella dimensione plurale e solidale dell’amicizia, vince la morte, risveglia l’energia positiva dei diversi personaggi e li muove spesso in modo incoerente, oscuro, illogico verso il superamento del dolore, della sofferenza fino all’accettazione senza riserve dell’imponderabile rischio del “venire ed essere” al/nel mondo. 

Nel corso dell’incontro sono stati citati:

  • Guadalupe Nettel, Petali e altri racconti scomodi [Pétalos y otras historias incómodas], in Liberamente, traduzione di Federica NiolaRomaLa Nuova Frontiera, 2019 [2008] 
  • Guadalupe Nettel, Bestiario sentimentale. Racconti [El matrimonio de los peces rojos], in Liberamente, traduzione di Federica Niola, Roma, La Nuova Frontiera, 2018 (2ª ed.) [2013]
  • Antonella Lattanzi,  Cose che non si raccontano, Torino, Einaudi, 2023
  • Ada D’Adamo, Come D’aria, Roma, Elliot, 2023
  • Matteo Pericoli, Il grande museo vivente dell’immaginazione. Guida all’esplorazione dell’architettura letteraria, Milano, Il saggiatore, 2022

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Qualcosa su i Lehman, di Stefano Massini

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28 marzo 2023

Stefano Massini “Qualcosa su i Lehman”, Mondadori, 2018

proposto da Tonia Lamanna

di Tonia Lamanna

Che “Qualcosa su i Lehman” sia un’opera sorprendentemente originale, fuori dagli schemi letterari, si coglie fin dal frontespizio: “romanzo/ballata” è la presentazione …  e già questo intriga! La dedica “alla memoria di Luca Ronconi”, uomo di teatro, ne è poi un altro qualificante indizio. Leggere la successiva  epigrafe dai toni aulici e declamati incuriosisce ulteriormente, ma quando continuiamo a sfogliare le  803 pagine del  voluminoso tomo, restiamo letteralmente stupiti nello scoprire, con il tipico allineamento grafico tutto a bandiera sinistra, una scrittura completamente concepita in “versi” raccolti in “strofe” (dal metro, ritmo e schema liberissimi), distribuite in “capitoli” (dai molteplici titoli poliglotti ebraici, yiddish, inglesi, italiani che il prezioso glossario annesso ci aiuta a decifrare), riuniti nei  tre “Libri”, (precisamente venti  capitoli  nel primo), I TRE FRATELLI,  (ventisette nel secondo), PADRI E FIGLI,  (ventisette nel terzo) L’IMMORTALE, a mo’ di poema  epico classico, con tanto di epiteti e formule verbali ripetute a scopo mnemotecnico tipici dell’epos di aedi e rapsodi antichi.

Con cautela ci accostiamo allora all’impresa di una lettura apparentemente impegnativa, ma bastano  i primi righi per essere immediatamente risucchiati dal magnetismo visivo dell’impaginazione verticale della parola stampata  e contemporaneamente uditivo dello stile  orale e scenico del linguaggio utilizzato: semplice e ricercato allo stesso tempo, fluido,  vivido e dinamico, ora più veloce asciutto e descrittivo, ora più lento ridondante e suggestivo, in un corto-circuito tra poesia, teatro e letteratura, classico e modernissimo insieme.  Ad aumentare la qualità multimediale del materiale linguistico usato, vera cifra post-moderna di quest’opera monumentale, emerge poi man mano  il pluralismo dei molteplici codici comunicativi e sistemi simbolico-culturali presenti nel romanzo: religioso, storico, politico, matematico, informatico, della grafic novel,  pubblicitario, sportivo, musicale, tipografico e, uber alles, senza scadere nel tecnicismo, quelli dell’economia e della finanza. Un lavoro “compositivo” amplissimo,  dispiegato ingegnosamente dall’autore Stefano Massini  tra  il 2009 e il 2016 (anno di pubblicazione) per tessere un romanzo storico contemporaneo ispirato alla saga familiare ed ascesa sociale dei Lehman iniziata nella metà dell’800 dal capostipite Heyum Lehmann, ebreo tedesco immigrato giunto nel 1847 a New York per restarvi  ”giusto qualche anno, quanto basta per farsi ricco e poi tornare” e  tener  fede al suo impegno di sposare Bertha Singer – la smunta ma ricca fidanzata del  suo paese. Rispettoso inizialmente delle rigorose disposizioni patriarcali dell’anziano e coriaceo genitore,  mercante  di bestiame bavarese che lo attende nel suo villaggio natale di Rimpar, in Germania,  ne prenderà progressivamente le distanze.

Ma “il carillon chiamato America”, in cui con decisione e intraprendenza s’introduce per primo, cambia in Henry Lehman non solo il nome del  giovane fondatore della dinastia  – poi designato  “la Testa –  ma l’intero destino suo, dei due fratelli  Emanuel (“il Braccio”) e Mayer (“la Patata”) che lo raggiungono dopo qualche anno, e della loro nutrita progenie di figli e nipoti tra cui gli ambiziosi, freddi calcolatori  e rampanti Philip, Arthur, Harold e Allan, e altri (Sigmund, Peter, Robert/Bobbie) profondamente e tragicamente tormentati, invece, dalla sofferta investitura ai ruoli dirigenziali nell’impero economico-finanziario  imposta loro, più o meno implicitamente, dalla famiglia. Impero cresciuto intanto a dismisura nell’arco di 120 anni di sfrenato sviluppo:  Bobbie  sarà l’ultimo rappresentante della famiglia Lehman  a guidare la Società Lehman Brothers Holdings Inc., morirà nel 1969. Lo sregolato sviluppo sarà stato tanto più vincente quanto più ispirato ai valori cinici del comando, della concorrenza spietata, del più feroce  e astuto  individualismo (anche all’insegna della menzogna e dell’inganno), e dell’illimitato e onnivoro trasformismo imprenditoriale.

Il cambiamento trans-culturale, oltre che di status, che tale trapianto dei Lehman nel nuovo continente genera, è anche segnato dal passaggio da una religiosità  ebraica  tradizionale e conservatrice -incarnata ancora nella staticità dei valori etici del padre – ad un ebraismo riformato di cui l’abolizione della divisione tra uomini e donne nel Tempio (non più Sinagoga) e l’istituzione delle “panche di famiglia”,tanto simbolicamente citate  a partire dal  Capitolo quinto del Libro Secondo: Familie-Lehmann, ne sarà esempio emblematico. Dell’antica ritualità permane in particolare la celebrazione ricorrente e comunitaria del lutto, i sette giorni della Shivà, gli unici momenti di pausa pensosa sull’esperienza umana del  “limite”, della “fine”  che i rappresentanti  maschi  “selezionati”  della famiglia si concedono nella girandola adrenalinica dell’affermazione affaristica di sé e dell’”Impresa”. Nell’ultima e definitiva scena finale dell’Epilogo i 14 Lehman protagonisti, raccolti in un surreale Consiglio d’Amministrazione conclusivo e tombale, prendono  atto della caduta e fallimento  del loro impero e ne recitano il funereo Qaddish.

“E’ il Capitalismo bellezza !” verrebbe da dire, parafrasando una celebre frase cinematografica, ma non vi è mai, da parte dell’Autore, un giudizio morale o ideologico sui protagonisti, fermo restando il timbro satirico che sottotraccia colora costantemente la narrazione (per mantenere la metafora musicale di questo commento),  eco piuttosto del tipico umorismo corrosivo che pervade, per tradizione, la cultura yiddish assorbita dall’autore durante la frequentazione  acuta e intelligente di amici ebrei  e delle loro famiglie, nell’età della formazione fiorentina. Il suo richiamo continuo a personaggi e vicende bibliche è il bordone che sostiene e accende  l’immaginario onirico e simbolico sia dei protagonisti che del lettore. Le “gesta” delle tre generazioni di Lehman  impegnano i rispettivi tre Libri costitutivi del romanzo/ballata e s’intrecciano sempre più strettamente con le vicende storiche e socio-politiche delle città e i territori abitati dai tre fratelli i quali manifestano subito un notevole talento per gli affari e una precoce  capacità  di penetrazione del continente (e ben oltre!) quasi profetizzata o piuttosto ispirata dal rabbino Kassowitz  in un memorabile iniziale incontro oracolare col primogenito. Dalla  fredda New York al sole caldo di Montgomery in Alabama, Henry  “si fa” (self made man, secondo la logica del liberismo americano più pionieristico) piccolo venditore di tessuti e abiti:  il negozio è suo, comprato con debiti e cambiali, gestito con senso del  sacrificio e tenacia, e ben presto inizia a farsi pagare dai clienti coltivatori di cotone nelle piantagioni degli Stati del  Sud con la preziosa materia prima, che commercializzerà a buon prezzo negli Stati del Nord. Il motto diventerà : “Comprare e rivendere. /Comprare e rivendere. /Comprare e rivendere

E’ l’inizio della fortuna della Società “Lehman Brothers” costituita dai tre fratelli nel 1850 che, nonostante la morte prematura di Henry, ben presto si fanno “mediatori” commerciali tra i produttori non più solo di cotone ma anche di zucchero e poi di caffè e ancora di tabacco, una escalation che porterà  il fratello Emanuel ad aprire una nuova sede nella più dinamica New York “dove il cotone diventa banconote” ovvero dove inizia il processo di  smaterializzazione della ricchezza famigliare con il passaggio dalla concretezza della merce e della fatica del lavoro necessario a produrla all’astrattezza  del suo valore di scambio, ovvero il denaro che investito per se stesso servirà a produrre altro denaro: la Società diventa una Banca prima commerciale e poi d’Investimenti  con un ruolo già attivo nella ricostruzione degli Stati della Confederazione sudista dopo la vittoria del Nord nella Guerra di Successione del 1865. L’esito della Guerra muta la  prospettiva catastrofica di un disastro economico per i Lehman in un’ulteriore occasione di profitti.

Il Secondo Libro PADRI E FIGLI “canta” l’apoteosi  di una incredibile accelerazione dell’espansione economica della famiglia Lehman ed anche sociale, grazie ad un’oculata strategia di matrimoni: il quartier generale della Società è spostato tutto nella sede di Liberty Street a Manhattan nel cuore di New York. Qui la transizione alla cultura urbana e borghese nord-americana dei figli di Emanuel è completata e l’integrazione si perfeziona, oltre che con lo studio multiplo delle lingue, perfino con lo studio del violino, strumento più “leggiadro, agile e moderno… esalta la silhouette, si suona in piedi……” – Philip figlio di Emanuel  a sei anni lo suona perfettamente – ”non ingombra mastodontico come i pianoforti nelle verande del Sud” suonati invece dalle cugine figlie di Mayer a Montgomery in Alabama, tipici di quella cultura meridionale più salottiera, più lenta, più assonnata e zuccherosa, tutta… “Kish Kish” … tutta da superare al più presto.

A New York “tutti impazziscono a fare fare fare /costruire costruire costruire/inventare inventare inventare”, è la città dove “tutto quanto è in movimento/tutto quanto è azione/ tutto quanto è energia” ed allora i capitali della Banca Lehman nelle ultime decadi dell’800 andranno all’estrazione del carbone, del petrolio, all’industria del ferro, della mobilità ferroviaria,  al cui “progresso”  la Società partecipa entrando nel mercato sempre più smaterializzato delle “obbligazioni”. I profitti bancari si moltiplicheranno esponenzialmente  grazie agl’investimenti degli “azionisti” che, affidandosi fiduciosi alla consulenza finanziaria dei Lehman,  si orientano verso l’industria automobilistica, elettrica, trasporti nautici, costruzione di  ponti, strade e canali giganteschi (come quello di Panama) e tutto quanto è quotato in Borsa.  Anche il paffuto Sigmund ha imparato la lezione delle 120 regole del perfetto e duro uomo d’affari in stile Lehman che i cugini gli hanno impartito: “ha perso l’aria da tenero coniglietto” e si è allineato applicandosi  spregiudicatamente  al commercio  di frutta esotica con i Paesi dell’America Centrale entrati intanto nella sfera d’influenza statunitense. Ma è Philip il golden boy della scalata, freddo e metodico anche nella vita privata, dal fiuto ineguagliabile, è capace di scaltre alleanze vincenti con le altre grandi famiglie ebree della finanza newyorkese o di uso furbesco della stampa contro le stesse associate pur di battere tutti i primati del sistema  finanziario nazionale. Non arretra neanche nel sostenere economicamente l’impegno militare statunitense per aiutare il  Presidente Wilson a schierare gli USA  a fianco della Gran Bretagna  nella Prima Guerra mondiale.  Anzi lo promuove nella prospettiva di  allargare l’impero familiare verso il Vecchio Continente con l’apertura di nuove agenzie  europee – una sorta di distorto ritorno alle origini – entrando così in rotta di collisione col cugino Herbert,  fin da giovanissimo  critico e rivendicativo verso la logica del mercato iperliberista senza scrupoli del cugino e del fratello Arthur.  Sarà il silenziosissimo Dreidel, figlio di Henry, in un profluvio di parole (A lot of words) non pronunciate per decenni,  a chiosare il pericoloso crinale sul quale la banca Lehman è ormai avviata, con un discorso memorabile che chiude l’ultimo capitolo del Libro Secondo.

Il Libro Terzo L’IMMORTALE si apre sui Ruggenti Anni Venti del Proibizionismo, della Radio, della diffusione della Musica Jazz, del volo aereo e dell’industria aeronautica:  i Lehman  sono ora una Corporation ovvero una Multinazionale, si occupano di Fondi Comuni d’Investimento “Investire soldi solo per fare soldi”, la politica americana generosamente non interviene sul libero mercato. “Nessun controllo sui gruppi finanziari. /Imposte sui capitali ridotte al minimo. /Tassi d’interesse pressoché a zero. /Che cos’è questa se non una pacchia”. L’arida logica calcolatrice del cugino Arthur è alle stelle : i guadagni  sono altissimi, illimitati, inarrestabili … e d’improvviso ….il crack di Wall Street del 1929, il crollo del sistema bancario americano che trascina con sé l’economia dell’intera nazione con suicidi degli agenti di borsa, licenziamenti nelle fabbriche, miseria, fame, rabbia e furore popolare, disperazione generale. Un diluvio universale che travolge e stravolge le logiche del mercato, nulla sarà più come prima. Sono gli anni della Grande Depressione durante la quale diversi  Lehman si troveranno su fronti diversi  a proporre formule salvifiche : il cugino Irving eletto Giudice Capo della Corte di New York;  ancora più schierato il cugino Herbert, datosi alla politica, eletto nel Partito Democratico Governatore dello Stato di New York. Al cugino Bobbie figlio del dorato  Philip, tocca la responsabilità di far galleggiare la Banca di famiglia come una novella arca di cui lui è il nuovo Noach (Noè il Patriarca) nonostante l’ostilità della moglie Ruth e dei procugini Arthur, Arold e Allan. Nulla sarà come prima, ma “tutto cambia perché nulla cambi”: l’America che emerge dal diluvio è quella di Franklin Delano Roosevelt, l’America del New Deal: più diritti ai lavoratori, ferie e malattia pagate, divieto di licenziamento, più lavoro alle donne… più tasse sui profitti.

Per la Banca internazionale dei Lehman è giunto il tempo di dare più spazio ai membri esterni nel Consiglio dei Partners, una grande rivoluzione per l’impresa non più esclusivamente familiare che resta comunque la  stessa macchina per produrre milioni:“ Vuoi il futuro sicuro ? FONDI PENSIONE LEHMAN BROTHERS/Vuoi sorridere ad ogni evenienza? COMPAGNIE D’ASSICURAZIONE LEHMAN BROTHERS /E ancora : Polizze Malattia, Copertura Famiglia…” La Previdenza Sociale  privata diviene dunque il nuovo affare;  per garantire l’Ottimismo strategica ci sarà  l’industria cinematografica dei Sogni e della Risata; per restituire Fiducia alla lower class? Ottima  la cultura pop dei Supereroi del Fumetto; per la serenità  familiare piccolo borghese ecco l’industria degli elettrodomestici tra cui la televisione (col suo ipnotizzante “Saturday Game Show”);  per l’immediato benessere materiale sbandierato dalla pubblicità? Pronto il consumismo prossimale della rete dei Superstores, Megastores … e  tutto questo grazie a investimenti targati Lehman. Il modello ormai ha travalicato l’Oceano, dopo la Seconda Guerra Mondiale è divenuto stile di vita “Occidentale, ha assorbito l’Europa, e siccome  il “Nemico Sovietico” post -bellico non è più solo alla frontiera orientale dell’Impero ma anche al suo interno, il Senatore McCarthy  ha già dato inizio in patria alla caccia alle streghe. Finito il Maccartismo, perfino la paura della bomba atomica è superata  negli anni Sessanta: siamo tutti uguali /uomini e donne, /bianchi e neri /perché abbiamo tutti il portafoglio, /perché abbiamo tutti un conto in banca. La linea del nuovo Marketing è vincente su tutto il pianeta “recitare/recitare sì,/fare finta che chiunque può comprare tutto/ …..dire a tutti chi compra ci guadagna/ chi vende sta perdendo/…….vinci se compri/ se compri trionfi/se compri mi batti/ se compri sei il primo…Il nostro obiettivo è un pianeta Terra/ in cui non si compri più nulla per bisogno/ ma si compri per istinto./ O se volete, per identità./ Solo allora le banche/ e con loro Lehman Brothers / diventeranno immortali”:  dall’Artico all’Antartico dal Perù a Singapore sugli affari Lehman Brothers non tramonta mai il sole.  Ora la parola d’ordine è “COMUNICARE People! C OMUNICARE”  e investire milioni di dollari nelle Multinazionali dei Telefoni, nei milioni di cavi che avvolgono la Terra, e poi nell’incredibile invenzione fantascientifica dei Computers e della conquista dello Spazio.

L’idolatria finale del dio denaro (“Egel ha Zahav-Il Vitello d’oro”) di Lehman Brothers, giovanilistica, iper -instabile e frenetica fino al parossismo,  sarà celebrata  dalla Division Trading diretta dal  rude immigrato ungherese, trader d’assalto,  Lew Glucksman, che fa il lavoro sporco  col suo pupillo Dick Fuld  e la sua squadra nevrotica  all’attacco: compra e vende azioni  contemporaneamente, turbinosamente, in 10 Borse di tutto il mondo, bleffando spesso con i compratori sull’inaffidabilità dei titoli ma triplicando gli utili in un mese: i Partners anziani sono preoccupati  da quel mercato drogato ma Bobbie Lehman è morto e nessun Lehman è più alla Direzione dell’impero. Si affidano al nuovo Presidente della Banca, lo scaltro Pete Peterson dall’ambigua  origine greca/svedese, già collaboratore e negoziatore in Cina con Nixon, lui sì che conosce le buone maniere. E’ lo scontro finale: Glucksman contro Peterson, lo Squash contro il Ping-Pong  (l’ennesima sensazionale metafora sortita dalla mente geniale dell’autore), la Borsa contro la Banca, vince la Borsa ma è un successo suicida che provoca  il tracollo della gestione Glucksman e la vendita dell’immortale marchio. “Dove fallì il ping-pong/fece boom lo squash”  è il  lapidario stigma di Massini nel 27° capitolo del Terzo Libro. La cronaca ci informa che dopo ulteriori trasformazioni societarie, nel 2008 arriva il crollo disastroso della Lehman Brothers, in assoluto la più imponente bancarotta  nella storia americana ovvero mondiale: a 158 anni dalla sua fondazione.  A seguire il lugubre Epilogo.

L’opera ha suscitato un grandissimo  interesse di pubblico nella sua versione teatrale con il titolo “Capitoli del crollo” fin dalla sua apparizione nel 2010 in Italia e in Francia poi,  con il titolo  “Lehman Trilogy”, messa in scena dai più importanti teatri e registi americani ed europei  fino a vincere  nel 2022 a New York 5 Tony Awards. E’ l’ ultima opera diretta da Luca Ronconi, già mentore di Stefano Massini che ne è stato assistente volontario dal 2001 e  poi sostituto alla sua morte come consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano.  Nel 2015 è stata  trasmessa dalla televisione italiana dove dal 2020 Massini interviene anche come attore, autore di vibranti e appassionate orazioni nella trasmissione “Piazza pulita” di  Corrado Formigli, scrive sul quotidiano “ Repubblica”.  Nel 2017 il romanzo pubblicato da Mondadori  ha vinto in Italia i premi Mondello , Campiello , De Sica , Giusti e Fiesole. In Francia, l’edizione pubblicata nel 2018, ha ricevuto il Premio Medici e quello del Miglior Libro Straniero.

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Breve nota a cura di Teresa Santostasi dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Una sfida “lodevole”, la lettura di questa storia/ballata che ha trovato la piena approvazione del gruppo di lettura. Per alcune una scoperta, Stefano Massini, questo Autore/Attore/Drammaturgo, Narratore dal vivo (interviene nei programmi “Piazza pulita” su La7, Rai3 “Ricomincio da tre”…), acclarato personaggio mediatico la cui firma è una garanzia (su la Repubblica “Parole in corso”, dallo spettacolo di Formigli “Racconti di vita”), vincitore, nel 2022, del premio Tony Awards per la migliore opera teatrale con il lavoro “Lehman Trilogy”, debuttato a Saint-Etienne nel 2013 e nel gennaio 2015, al Piccolo teatro di Milano, ultimo progetto di Luca Ronconi.

In “Qualcosa sui Lehman” Massini mescola letteratura e fumetto in una fantastica caricatura POP. Scrive in forma di ritmo di ballata, trasportandoci dentro una storia che ci riguarda e che non appartiene solo alla famiglia Lehman. Lo stile narrativo è stato definito “originale, geniale, giocoso, ritmico, a volte telegrafico”, utilizzando i linguaggi più disparati, elenchi, dialoghi, in un “meticciato” della attuale cultura ed una grafica che aiuta a leggere le oltre 800 pagine del testo. Affrontando un tema pesante (l’economia), con eleganza e leggerezza, ne abbiamo apprezzato la musicalità del testo che a volte risulta divertente (“sorridevo anche nella tragicità dell’argomento”). Si è detto che, come Carrère, Massini attinge dalla realtà la conoscenza ed il piacere del racconto.  E ’la storia di una banca, dal 1844 nei 160 anni del nostro tempo, ma anche di esseri umani diversi tra loro, di fratelli ebrei ashkenaziti che dalla Baviera emigrano in America e che, a partire dal nulla, diventano il terzo colosso finanziario a livello mondiale. La sua caduta, nel 2008, provocherà una crisi finanziaria internazionale. E ’la storia di una famiglia che ha evocato l’Odissea, dove già dalle prime pagine si respira odore di poema omerico, pur mancandone la metrica; una storia che inizia sul molo di un porto americano, con un giovane immigrato ebreo tedesco che respira l’entusiasmo dello sbarco; è il seme da cui nascerà il grande albero di una saga familiare ed economica capace di cambiare il mondo. Acuto e razionale, Henry Lehman si trasferisce nel Sud degli Stati Uniti, dove apre un negozio di stoffe. Ma il cotone degli schiavi è solo il primo banco di prova per l’astuzia commerciale targata Lehman Brothers (perché nel frattempo Henry si è fatto raggiungere dai fratelli Emanuel e Mayer). Con il tempo, al cotone si sostituiscono il caffè, lo zucchero, il carbone, e soprattutto la nuova frontiera di un’industria ferroviaria tutta da finanziare; ai padri subentrano i figli ed i nipoti, in un mosaico di umanità diverse, assortite, contraddittorie. E’ stato evidenziato il “gap” generazionale tra Abramo il capostipite, i nipoti e i figli dei nipoti. La storia è un percorso antropologico della nostra società, il racconto dell’abbandono di una religione (l’ebraica integralista), per abbracciarne un’altra (il capitalismo) dove l’etica religiosa viene applicata all’etica della finanza. Massini ci fa riflettere su ciò che è la nostra vita e come siamo arrivati ad essere ciò che siamo.

Ha sorpreso, chiarendone le ragioni, la profonda conoscenza del mondo giudaico dell’Autore che bene interpreta l’animo ebraico con il suo tipico umorismo, pur essendo un gentile. Si è inoltre sottolineata la marginalità delle figure femminili nel mondo dei Lehman, quasi ad amplificare il silenzio delle donne nella Bibbia che qui restano pressochè mute!  Infatti, l’albero genealogico che apre il racconto esclude del tutto la presenza delle mogli, mamme, figlie, cugine…

E’ stato evidenziato che Massini trova ispirazione dalla maschera tragica di Buster Keaton, il comico dal viso serio; veri “colpi di teatro” sono il gioco degli equivoci tra Bobbie ed i banchieri, la scena decisamente teatrale dei banchieri che portano i figli al tempio per farli circoncidere e battezzarli nel mondo dei grandi; la riunione del funerale della banca ha ricordato “Lezioni di tango” di Elsa Osorio, dove i personaggi vivi incontrano i personaggi defunti tornando tutti in scena verso una dimensione metafisica.

Massini non condanna né giudica, né emerge alcun giudizio sul capitalismo; Massini osserva, racconta di come la parabola del capitalismo non è solo responsabilità della finanza e degli speculatori; molte colpe provengono da comportamenti individuali, dove ognuno di noi corre il rischio di cadere nella stessa trappola di Pinocchio che dà i suoi soldi al gatto e alla volpe, affinchè, senza lavorare e senza sudore, la mattina dopo possa trovare il doppio dei soldi nel campo dei miracoli (vedi intervista a Massini, incontro presso il Chiostro del piccolo teatro a Milano 31.03.2014)

Si è suggerito che “Qualcosa sui Lehman” possa essere letto e discusso nelle scuole, perché rappresenta una vera lezione di economia e di vita, riuscendo a distinguere sfruttatori e sfruttati.

Il titolo del racconto suggerisce “qualcosa”, ma in realtà, c’è tutto!!

Baruch Ha Shem!

Nel corso dell’incontro sono stati ricordati:

  • Pastorale Americana di Philip Roth
  • Lezioni di tango di Elsa Osorio
  • Oltre il giardino film di Hal Ashby (1979)
  • L’Avversario di Emmanuel Carrère
  • L’Odissea di Omero
  • Woody Allen
  • Buster Keaton
  • Charlie Chaplin
  • Interviste a Stefano Massini: Corrado Augias nel programma di Rai 3 “Quante storie” stagione 2016/2017, reperibile su RaiPlay 01.12.2016
  • Piccolo Teatro a Milano presso il Chiostro 31.03.2014
  • Piccolo Teatro Grassi a Milano dal 29.01.2015 al 15.03. 2015 con Luca Ronconi

Berta Isla, di Javier Marìas

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21 Febbraio 2023

Javier Marías, “Berta Isla”, traduzione di Maria Nicola, Einaudi, 2018

proposto da Adriana Pepe

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Breve nota a cura di Elisa Cataldi dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Lettura da tempo rinviata, finalmente quest’anno, forse catalizzatore il sopravvenire della morte dell’autore, proposta da Adriana, è stata accettata con entusiasmo. Globalmente gradito a quasi tutte le partecipanti, con sfumature diverse, ne è stato sottolineato lo spessore letterario, l’intensità, la molteplicità dei temi affrontati. Storia sentimentale e Spy Story si fondono in una narrazione emozionante, coinvolgente, ricca di colpi di scena. Un thriller che si trasforma in romanzo psicologico: l’identità personale, l’attesa (Berta, una moderna Penelope, così acutamente definita da M. Concetta Tringali), il sentirsi costretti in una vita non scelta, il tempo che passa veloce mentre la vita “accade”, la morte, in una trama che alcune hanno trovato troppo indaginosa e come tale poco credibile. L’Autore mette sotto la lente d’ingrandimento un rapporto di coppia molto imperfetto, alle prese con gli imprevisti della vita, una relazione che si ritrova a viaggiare sull’orlo del baratro, della rottura e che invece, nonostante tutto, si rivela un legame fortissimo ed imprescindibile per entrambi.

Un libro malinconico, è stato detto, perché parla di silenzi, di incomunicabilità, dell’impossibilità di conoscere a fondo chi amiamo. Da ogni avvenimento scaturiscono riflessioni profonde, meditazioni infinite, frequenti ripetizioni che alcune di noi hanno trovato prolisse, eccessive. La digressione, però, vera cifra dell’Autore, non sospende la trama, ma la arricchisce e contribuisce alla comprensione dell’opera nel suo complesso.

Innumerevoli i riferimenti storici (il Franchismo in Spagna, la guerra delle Falkland, la questione dell’Irlanda del Nord, l’Europa dell’Est fino alla caduta del muro di Berlino), e soprattutto i riferimenti letterari: da T.S. Elliot che accompagna tutta la narrazione, a H. de Balzac, a Melville, a Janet Lewis. Per non parlare di Shakespeare, del quale vengono riprese intere scene dell’Enrico V per parlare del conflitto fra la Ragion di Stato e la responsabilità individuale (così come “Domani nella battaglia pensa a me”, titolo del suo precedente bellissimo romanzo, è un verso del Macbeth di Shakespeare)

Nel corso della discussione sono stati citati:

Wakefield, in Tutti i racconti, Nathaniel Hawthorne, Feltrinelli, 2013

Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del ‘500,  di Natalie Zemon Davis, prefazione di Carlo Ginzburg, Officina Libraria, 2022

Il ritorno di Martin Guerre, film di Daniel Vigne (1983) con G. Depardieu

La moglie di Martin Guerre, Janet Lewis, Ed. Racconti, 2022

Pedro Paramo, di Juan Rulfo

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17 gennaio 2023

Juan Rulfo, “Pedro Paramo“, traduzione di Paolo Collo, Einaudi 2014.

proposto da Adriana Pepe

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Breve nota a cura di Roberta Ruggiero dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Eravamo tutte contente di aver approfondito la letteratura latino americana, anche se consapevoli della difficoltà di far rientrare molti autori in questa etichetta, vista la complessità e anche la diversità di quei territori. Condotte da Adriana, che ha proposto il libro, e da Monica, conoscitrice di quella realtà, abbiamo meglio esplorato il Messico, uno dei paesi più vari nel periodo precoloniale, che ha più riflettuto sulla colonizzazione e sulla decolonizzazione, e che ha nella rivoluzione sovietica un forte punto di riferimento. Grande guida per capire tutto ciò è stata segnalata, da Monica, Il labirinto della solitudine di Octavio Paz. Gli anni ‘20 e ‘30 vedono in Messico molte presenze importanti, europee e non, letterarie, artistiche, politiche e Rulfo ne è un testimone importante. Punto di riferimento per tutta la letteratura successiva, testimonia questa ricchezza d’incontri, direttamente e indirettamente, in vari campi, compreso quello della fotografia. Abbiamo sfogliato un libro di sue fotografie, portato da Adriana. Pedro Parano è piaciuto a tutte, con varie sfumature, pur essendo non facile nei contenuti e nello stile, ha rappresentato una sfida a cui non ci siamo sottratte. Lo abbiamo riconosciuto come significativo esempio di quel clima che verrà definito “realismo magico”, che Adriana ha allargato al metafisico. I vari piani temporali ed esistenziali del libro si intrecciano, ma mantengono ognuno la propria identità, fornendo una traccia che solo forzandola rivela un tempo diacronico. Lo stile, che abbiamo ripetuto tutte, non facile, ha una sua concretezza e uno spessore quasi materico, che ben si adatta ai temi trattati. Tra questi abbiamo ricordato: il potere oppressivo, le donne, l’amore, il dolore, la morte.

Ferito a morte, di Raffaele La Capria

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Raffaele La Capria, “Ferito a morte“, Mondadori, 2021

Proposto da Luciana Cusmano

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di Amalia Mancini

Le ferite più difficili da rimarginarsi sono quelle che ti porti dentro e non basterà una vita per liberarti da quell’infelicità. E si sa ognuno è infelice a proprio modo…

E ’il caso di Raffaele La Capria in Ferito a morte, libro cult degli anni sessanta, vincitore nel ’61 del prestigioso premio Strega.

Un libro che ho molto apprezzato dal punto di vista estetico, con una scrittura impeccabile, ma che non è riuscito a piacermi pienamente, e mi ha costretto a interrogarmi a lungo su questo: quali sono i motivi che mi spingono a non essere convinta che sia un bel libro. Perché? Partiamo dai toni del libro, dalla melanconia per un tempo perduto, che non è più, che attraversa tutto il romanzo. Un momento, possiamo parlare di un romanzo? Oppure potremmo definirlo diario, annotazioni d’autore su un mondo ormai scomparso, su una Napoli ormai esistente solo nella nebbia dei ricordi, di come eravamo, anzi erano, quei giovani borghesi napoletani che trascorrevano le loro ore migliori tra Posillipo, Capri, Sorrento e Positano, tra una immersione subacquea, una passeggiata in motoscafo e una partita al circolo, dove ognuno di loro interpretava un ruolo, una parte: il giocatore, il nuotatore, l’adescatore di fanciulle e via dicendo, in una Napoli tra gli anni ‘50 e ‘60, in cui imperversava la ricostruzione/devastazione di una città semidistrutta dalla guerra, dove la speculazione edilizia faceva da padrone.

La denuncia dell’autore è forte e diretta contro chi ha deturpato il territorio in maniera irreversibile. La Napoli a cui La Capria si riferisce è la città dei borghesi benestanti, che vivono a Posillipo e che probabilmente poco conoscono dei quartieri popolari, dove vive la plebe e la piccola borghesia, non troveremo i bassi dove Filumena Marturano per fame è costretta a prostituirsi, né le varie donne Amalia che per tirare a campare devono inventarsi mille mestieri, oppure la disperazione di chi è obbligato ad arrangiarsi, come ci narra Eduardo. Le donne, secondo la visione del tempo, sono prede, come la spigola che silenziosa nuota sott’acqua, pronte ad essere carpite. Non è neanche la Napoli di Nanni Loy di Scugnizzi o Mi manda Picone e neanche sicuramente quella di Sorrentino. E’ un mondo lontano, sconosciuto a me, quello di La Capria, amato e odiato dallo stesso autore, morto, finito come la sua giovinezza, il suo sogno, ma pure vivo grazie alla sua scrittura, criticato fortemente dalla Ortese, che ne intravedeva la decadenza e uno strano compiacimento in questa decadenza, senza speranza e senza forza di combattere.

Sembra di ritrovarsi di fronte a una battaglia perduta o mai combattuta, una sconfitta che lacera le carni, le fa sanguinare, probabilmente sanguineranno a lungo, una ferita che uccide la parte più combattiva dell’autore, che lo costringe a partire per salvarsi, ma da cui probabilmente non guarirà mai. E’ proprio questa mancanza di speranza, questo lasciare che tutto vada senza una lotta, fluisca senza voglia di cambiamenti quello che mi inquieta di questo libro, proprio come diceva Pino Daniele… Napoli è ‘na carta sporca e nessuno se ne importa… Forse se …

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Con diverse riflessioni e tante note interessanti si è detto che il libro di La Capria è uno dei libri italiani più importanti del novecento, adottando temi e tecniche narrative che lo avvicinano a J. Joyce, M. Proust, V. Woolf e W. Benjamin. La tessitura narrativa è complessa, non c’è trama, ma le pagine scorrono con monologhi e dialoghi serrati, che conducono il lettore in un fiume di visioni, riflessioni e argomenti che la tecnica del monologo interiore svela e illumina. Sono stati evidenziati alcuni dei tanti temi che nel libro si rivelano nella luce unica e abbagliante di Napoli, il luogo della giovinezza, della bella giornata, dell’occasione perduta, del mare, ma la città che “…ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”, è il luogo mitico da cui è quasi impossibile separarsi anche se si cerca di fuggire, sempre però nella consapevolezza dell’inesorabilità del tempo, tanto che è stato detto che il tema ricorrente di questo libro è la morte.

Palazzo Donn’Anna, mappa del romanzo, rappresentazione della bellezza e della complessità di Napoli, significante Natura e Storia, è il luogo della nostalgia e anche dell’impotenza. La Capria denuncia il sacco della città che si stava realizzando proprio negli anni in cui scriveva e che ci ha fatto pensare a La speculazione edilizia di I. Calvino, entrambi scrivevano proprio negli anni cinquanta. Si è ricordato che La Capria ha sceneggiato con il suo amico Francesco Rosi il bellissimo film “Le mani sulla città”.

L’inerzia e il grande ozio sociale della classe digerente del mezzogiorno, sono denunciati in pagine magistrali quando viene raccontato il tempo che si consuma al Circolo, epicentro delle giornate della borghesia, dove la Storia del Mondo non è mai passata e dove valori e giudizio sono sospesi. Citando i bellissimi incipit di alcuni capitoli molto si è detto sulla bellissima e ricca scrittura di questo libro, dove una lingua viva e vivace non ha affatto perso efficacia nel tempo, essendo il risultato di un profondo lavoro di costruzione.

La citazione dei versi di V.H. Auden, sia nell’esergo che nel testo testimoniano la formazione culturale del giovane La Capria, in particolare aperta alla letteratura americana e inglese. Sono stati ricordati durante l’incontro anche altri autori Anna Maria Ortese, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Paolo Volponi, Alberto Moravia, oltre all’interessante episodio dedicato a Raffaele La Capria del programma Rai, “Sciarada. Il circolo delle parole, stagione 21/22 ep.19”, reperibile su Raiplay.

Le sorelle Lacroix, di Georges Simenon

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6 dicembre 2022

Georges Simenon, “Le sorelle Lacroix”, traduzione di Federica e Lorenza Di Lella, Adelphi, 2022. 

proposto da Maria Rocca e Vanda Morano

di Maria Rocca

Leggere George Simenon è per me un’esperienza sempre diversa, forse perché i suoi lavori sono ora un giallo, ora un romanzo, ora un’introspezione psicologica. Egli è amaro, duro, pungente, sempre intransigente con i suoi personaggi.

“Ogni famiglia ha uno scheletro nell’armadio …” recita l’epigrafe di questo romanzo crudele ma veritiero, perché l’astio, il livore, l’acredine fanno parte dei sentimenti negativi che albergano nel cuore dell’uomo. Pagina dopo pagina, Simenon svela gradualmente lo scheletro nell’armadio, esplora gli abissi della mente umana, descrive l’incrinarsi della ragione, l’avanzare delle pulsioni, il precipizio dell’anima dietro l’apparente armonia.

Che nella famiglia Lacroix l’atmosfera sia tesa lo si intuisce subito. Basta osservarla a tavola, nel silenzio pesante, negli sguardi rabbiosi, nei gesti maldestri. Il romanzo è ambientato a Bayeux nel dipartimento del Calvados in Normandia. Pochi personaggi, (tra cui dominano le sorelle Mathilde e Leopoldine Lacroix, figlie di un notaio di Bayeux), in un luogo unico, borghese, che amplifica i malumori creando implosive situazione claustrofobiche. La casa è un’abitazione su tre piani, “una gabbia di matti”, benché ampia e spaziosa è sempre chiusa, e l’aria umida e stantia contribuisce ad appesantire l’atmosfera. Poche parole vengono scambiate tra i membri della famiglia, molti gli sguardi allusivi, i silenzi, gli scricchiolii, le percezioni desunte col circospetto spiare il comportamento altrui.

Le due sorelle vivono sotto lo stesso tetto: Mathilde con suo marito Emmanuel Vernes, un artista mediocre, restauratore di quadri, e con i loro due figli, Geneviène e Jacques; e Leopoldine, chiamata Poldine, che gestisce gli affari di famiglia, (seduta a fare i conti davanti a pile di quaderni neri con la copertina di tela cerata e le pagine piene di cifre tracciate a matita), con sua figlia Sophie che ogni tanto ritorna in famiglia, mentre suo marito fin dai primi tempi del matrimonio è confinato in Svizzera per via della tisi di cui soffre. Le due sorelle, benché sposate, sono da sempre note con il cognome da nubili. Il racconto si apre con la giovane Geneviève Vernes, una diciassettenne che in chiesa recita il rosario con insolito fervore: … piena di grazia, il Signore è con te … piena di grazia, il Signore è con te …  (pag. 13-14)   … adesso e nell’ora … nell’ora … A quel punto, guardando la Madonna con gli occhi pieni di lacrime, esclama: “Fa che sia io a morire per prima!… O che moriamo tutti insieme, mia madre, mio padre, Jacques…” (Pag. 15)  “Santa e bella Madonnina … fa’ che la situazione a casa cambi…………

”Le preghiere e le invocazioni al cielo della giovane Geneviéve Vernes, espresse all’interno della chiesa di Bayeux, risultano vane.

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di Vanda Morano

Storia di famiglia in un interno. Ritratto di provincia a porte chiuse.

Le protagoniste principali di questo romanzo sono le sorelle Lacroix che, entrambe sposate, conservano il loro cognome per sancire il loro forte legame e una situazione immutabile e immobile. Sono entrambe intrappolate in un reciproco odio che estende gli effetti negativi sugli altri inquilini della casa; su Viève (figlia di Mathilde) che somatizza il dolore fino a perdere la ragione, su suo fratello che tenta di allontanarsi da quel clima opprimente e su Sophie (figlia di Poldine) che è intollerante e rancorosa.

Vittima è anche Vernes, scialbo pittore, infelice marito di Mathilde e padre di Sophie perché amante in un lontano passato di Poldine. In un crescendo di tensione monta la ostilità tra i membri della famiglia. Viene alla luce un verminaio di rancori tutti nascosti  sotto una patina di borghese rispettabilità. Le due sorelle sono forgiate per grandi tragedie ma gli altri personaggi soccombono nella loro fragilità e nella loro opacità . Viève muore, suo padre si impicca. Le due sorelle si ritirano a vivere nel piano superiore cedendo il resto della casa al figlio di Mathilde . Il restringersi degli  spazi favorisce loro una prossimità fisica e una interdipendenza animata dal sospetto e dall’odio, un odio che “diventava tanto più spesso, tanto più vischioso, tanto più pesante, tanto più perfetto quanto più lo spazio si riduceva”. Un epilogo indicibilmente feroce.

In questa storia crudele Simenon guarda, narra, scandaglia ma non giudica. Il suo stile narrativo è come sempre asciutto e poco incline agli estetismi letterari, i suoi mots matière, i punti esclamativi, i punti di sospensione descrivono efficacemente atmosfere e personaggi.

Il quadro di Lèon Spilliaert pubblicato sulla copertina del libro mi sembra una scelta editoriale efficace per presentare una storia così buia e angosciosa.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Sono state dette molte cose importanti e interessanti su questo libro che è stato molto apprezzato dalla maggior parte delle partecipanti alla discussione ma anche del tutto rifiutato da alcune.

Si è detto che in questo libro Simenon mette in evidenza la parte oscura che c’è in noi, raccontando l’odio, un sentimento primordiale, socialmente rifiutato, che invece Simenon riesce a inserire in una storia pensata con una geometria rigorosa ed eccezionalmente creativa. In una casa claustrofobica i personaggi si muovono quasi in una danza macabra senza vie d’uscita, raccontati con uno stile secco, asciutto che rivela anche il procedere dello scrittore per sottrazioni per poi arrivare a quel nucleo centrale della storia, l’odio, che si addensa sempre di più via via che si riducono gli spazi della casa intorno alle due sorelle.

E’ stata sottolineata la grande capacità di Simenon di osservare e raccontare la gente comune, senza voler arrivare ad esprimere il tragico della vita. Simenon non è uno scrittore drammatico, è un osservatore acuto e impietoso che procede senza esprimere giudizi. Il libro fu scritto nel 1937, ma la famiglia Lacroix ricorda alcune dinamiche familiari che tragicamente si incontrano ancora oggi.

Si è però anche detto da parte di alcune che il libro è soffocato dall’artificiosità della tesi che vuole raccontare, senza mai approfondire né le motivazioni né l’ambiente sociale, sottolineando così la non autenticità di un autore generalmente molto abile, ma che in queste pagine non coinvolge né sconvolge, insomma il meccanismo del noir è troppo scoperto ed evidente.

E’ stato sottolineato che la copertina di questa edizione Adelphi con  Due donne a un tavolo blu, di Léon Spilliaert è particolarmente efficace per presentare questa storia buia e angosciosa e che è risultato ottimo il lavoro di traduzione delle sorelle Federica e Lorenza Di Lella. 

Si è ricordato “Un brav’uomo è difficile da trovare” di Flannery O’Connor, il film “Arsenico e vecchi merletti” ed anche la citazione di Lord G. Byron “L’odio è di gran lunga il più duraturo dei piaceri; gli uomini amano in fretta, ma odiano con calma”.

le “coccole” di Luciana

Una questione privata, di Beppe Fenoglio

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25 ottobre 2022

Beppe Fenoglio, “Una questione privata“, Einaudi, 2022

proposto da Isa Bergamini

Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

La nota ricorrente è stata l’emozione nel leggere la storia di ragazzi la cui giovinezza è stata negata e le cui vite sono state travolte dalla guerra. Il racconto dell’amore di Milton, Fulvia e Giorgio è la questione privata che ha tutti i segni di umanità nella disumanità della guerra.

Si è detto che la Resistenza come scelta di vita viene raccontata in questo libro, nella sua sommessa e drammatica quotidianità, vissuta come unica scelta possibile per avere diritto ad una dignità umana, nella consapevolezza di una solitudine che non urla la sua disperazione.

Più volte è stata citata la descrizione del paesaggio delle Langhe e soprattutto della nebbia che nasconde, avvolge e protegge,  ma anche può ingannare.

L’amore travolgente del giovane Milton è compagno del suo andare, ma la morte incombe ad ogni passo e ad ogni suono su quelle colline.

E’ stata sottolineata l’alta qualità delle pagine di Fenoglio in cui il lirismo traspare sommesso in una scrittura piana, dolce e penetrante, risultato di un grande lavoro.

Diversi sono stati i pareri su come Fenoglio abbia voluto concludere la storia o se l’abbia lasciata volutamente indefinita.

Quando si è parlato di Resistenza è stato citato N. Bobbio (Profilo ideologico del Novecento in E. Cecchi, N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano, 1969) “…La Resistenza, non fu una rivoluzione e tanto meno la tanto attesa rivoluzione italiana; rappresentò puramente e  semplicemente la fine non pacifica ma violenta del fascismo (…) La Resistenza si dimostrò essere un “tempo breve”, consumato e strozzato prima di aver potuto esprimere tutto il proprio potenziale di forza ideale e di capacità rivoluzionaria.”

Quando si è parlato del paesaggio in queste pagine di  Fenoglio, è stato citato quanto ha scritto Emilio Cecchi “(…) La sua forza sta in questo: che, non rinunciando mai alla sua ostinazione intellettuale e morale, egli arriva a darci la rivelazione delle forze tempestose che sovrastano la vita. (…) … la dolcezza dei paesaggi, i contraccolpi della memoria, il respiro della natura che muovono il suo mondo esprimono una reverenza quasi religiosa per la scabra, infinita avventura umana.”

L’incontro, anche questa volta, è stato piacevolmente addolcito dalle “coccole” di Luciana.

Ho paura torero, di Pedro Lemebel

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4 Ottobre 2022

Pedro Lemebel, “Ho paura torero”, traduzione di M.L. Cordaldo e G. Mainolfi, Marcos y Marcos, 2004 e 2021

proposto da Tonia Lamanna

di Tonia Lamanna

Un libro che commuove, diverte, sorprende, graffia e fa pensare. Una satira demistificante del potere dittatoriale di Pinochet che emerge dal “basso” dei quartieri popolari e della marginalità sociale del protagonista omossessuale e travestito. E’ la Fata dell’angolo, sartina canterina a servizio di altezzose clienti benestanti, una “mammola tutta bambagia e delicatezza” che in-cantata dal fascinoso Carlos, universitario e rivoluzionario, attraverso questo amore impossibile e poetico, libero e pudico, malinconico e struggente, sensuale e delicato, riscatta tutta se stessa da una vita di umiliazioni e violenze familiari, di frequentazioni sordide e amicizie equivoche, maturando progressivamente ed insieme consapevolezza politica e dignità personale.

Il romanzo ha tutto il sapore della vicenda autobiografica vissuta dall’autore cileno, il trasgressivo Pedro Lemebel, attore, fotografo, cineasta, attivista del movimento gay, in quel lontano 1986 quando, dopo tredici anni di dittatura in Cile, Pinochet promuove una consultazione popolare sicuro di vedere ancora confermato il suo potere autocratico. In un movimento circolare e musicale, quasi in forma di rondò, l’autore costruisce un contrappunto sonoro al racconto alternando “versi” di canzoni popolari d’amore fuori moda, sentimentali e nostalgiche care al protagonista – in morbido corsivo nel testo – agli spigolosi notiziari in maiuscolo, asciutti e taglienti della Cooperativa-Radio Maggioranza, intrecciando contemporaneamente sui due versanti del racconto (la vita sociale colorata e pittoresca del quartiere/ i luoghi aridi, fatui e mortiferi del potere) metafore e temi comuni: torte e feste di compleanno, tovaglie ricamate, cappelli gialli e a falda larga, colibrì e condor, auto-nido e auto-bunker.

Il tutto rappresentato attraverso un icastico linguaggio letterario, effervescente di accostamenti visionari modernamente barocchi (perla triste rimasta senza mare, sgorbio disarticolato del disamore,…) o di ricercate litanie profane di epiteti (mano gabbiana, mano farfalla, dita vespe….) che sorprendono continuamente il lettore mai impigrito nel processo d’interpretazione simbolica del testo.

I personaggi del dittatore sanguinario e della sua molesta e logorroica consorte, ritratti nella prosaica routine domestica della coppia, escono dalla penna dell’autore sgonfiati della prosopopea di facciata del potere. Inchiodato alle sue paure subconsce e alle sue lugubri nevrosi il primo, meschina, superstiziosa e sciocca la seconda, fanno da specchio negativo alla coppia Carlos-Fata dell’angolo che invece, cambiati positivamente dalle vicende politiche vissute insieme, nel loro ultimo toccante e inevitabile saluto avvolti da uno struggente tramonto della baia di Valparaiso, si rivelano ambedue divenuti capaci di sentimenti profondi, sinceri, autentici, generosi, maturi.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Il libro è piaciuto a tutte. Si è detto che l’ironia che lo percorre, riesce a tenere insieme due storie parallele, da una parte la storia sontuosa dai mille colori di un amore impossibile e dall’altra le figure grottesche, opache e pallide di Pinochet e sua moglie, raccontati nel loro privato e ferocemente messi a nudo, in totale contrapposizione alle pagine dedicate alla Fata dell’angolo e alla vitalità di Carlos e dei suoi amici.

Si è detto che questo breve e intenso romanzo, l’unico di Lemebel, è proprio un ricamo poetico, un ricamo come quelli con cui la Fata dell’angolo decorava le sue tovaglie, in pagine dove alcuni testi di canzoni popolari fanno da contrappunto ad una prosa sontuosa, elaborata e mai volgare. Si può considerare questo libro anche come un romanzo di formazione, pensando al percorso di maturità politica raggiunta dalla Fata dell’angolo, mentre il giovane Carlos impara a scoprire “l’altro” da rispettare e non solo strumentalizzare. E’ stato definito un romanzo struggente, tragico e grottesco, infatti nelle sue pagine traspira soprattutto passione umana e passione politica, filtrate da un’ironia che colpisce facili sentimentalismi e soprattutto il potere, rappresentato da vari siparietti di vita quotidiana della coppia Pinochet.

Sono stati ricordati Il bacio della donna ragno di Manuel Puig e Notturno cileno di Roberto Bolaňo, uno per la condivisione di alcuni temi e l’altro per il richiamo ad una pagina barocca, ed entrambi per la presa di posizione politica contro la feroce dittatura in Cile.

Su You Tube è possibile vedere alcune scene del film “Tengo miedo torero” del regista Rodrigo Sepulveda con Alfredo Castro e Leonardo Ortzgris, oltre ad alcune interviste allo scrittore.

E’ stato inoltrato sulla chat di LeggerMente il testo “Parlo per la mia diversità” , un vero e proprio manifesto umano e politico.

A fine incontro sono state lette le ultime righe di Quarta lettera da “Baciami ancora, forestiero“, di Pedro Lemebel:

“…E in questa vertigine ti scrivo, in questa vertigine immagino i tuoi occhi che mi seguono nella scrittura. E, magari, questo momento, in cui lettura e lettera, occhio e cuore, voce e silenzio, acqua e aria, ritrovano l’orizzonte vago di quel pomeriggio portuale, di fronte al grande anfiteatro di Valparaíso, dove feci un sogno da trapezista, senza rete… perché tu eri il mare.”

L’Arpa e l’Ombra, di Alejo Carpentier

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21 giugno 2022

Alejo Carpenter, “L’Arpa e l’Ombra“, Traduzione di Angelo Morino, Ed.Sellerio, 2020

proposto da Rosa Giusti.

di Rosa Giusti

Cristoforo Colombo…E’ stata la curiosità su questo personaggio a spingermi alla lettura de L’arpa e l’ombra, chè di lui tratta, in forma di romanzo storico, lo scrittore cubano Carpentier (1904-1980).
E di fatto il libro mi è servito a “scoprire” Colombo, colui che nell’accezione comune ha “scoperto” l’America. Ma insieme con lui ho “scoperto” Carpentier. Un bel risultato davvero, perché opera e autore si sono rivelati ben al di sopra delle mie modeste aspettative di approfondimento su Colombo.
La nazionalità latino-americana dell’autore presagiva una storia diversamente raccontata dall’altra parte del mondo e già questo mi pareva un elemento di novità interessante. Nella prima edizione di “El arpa y la sombra” (1979), attingo dalla postfazione di Angelo Morino, “Carpentier annotava di sentirsi irritato dall’insistenza agiografica del libro su Colombo di Claudel e più ancora da quello di Leon Bloy nonché dalle proposte della chiesa cattolica di beatificare il navigatore genovese e, rivendicando il diritto dei latino americani ad avere storia e identità proprie, che non fossero riflesso di quelle europee, si dedicava alla demistificazione di Colombo, non mirando ad “abbatterne le statue”, ma semplicemente a consegnarlo alla verità di uomo del suo tempo”.
Per scrivere in questa ottica, Carpentier si documenta attingendo a fonti storiche, e genialmente, struttura il libro sulla tentazione della Chiesa di fare santo Colombo, regalandoci una storia in massima parte vera e in parte verosimile, come deve essere un romanzo storico.
Nel primo capitolo ci imbattiamo in Pio IX che esamina la pratica di Colombo: ci sentiamo immediatamente avvolti in un’atmosfera tutta papalina, ridondante di ori e di riti e di gerarchie e di intrighi, descritta con modalità stilistiche involute e barocche. Il pontefice, che ha direttamente visitato l’America meridionale rimanendo impressionato dalla vastità dei paesaggi e dalla vivacità di una economia in fieri, è fatalmente attratto dal varo di un santo dei due mondi, di un santo marinaio, ponte tra l’Europa e l’America, che riconfermerebbe Urbi et orbi, l’autorità e il dominio della chiesa di Roma
Nel secondo capitolo incontriamo Cristoforo Colombo morente, a Valladolid, in attesa del confessore. Qua la scrittura diventa discorsiva, intima: un uomo è deciso a ripercorre i momenti salienti della sua vita con sincerità, a fare un esame di coscienza. Intende ammettere i molti vizi e le poche virtù che lo hanno contraddistinto e riconciliarsi e riconsegnarsi al Creatore. Ed è in questo capitolo che ci avviciniamo a Colombo, partecipando alla sua vita densa di avvenimenti speciali, di viaggi, avventure, amori e battaglie, tante battaglie, per raggiungere il fine che dà il senso ultimo della sua esistenza: solcare mari sconosciuti, scoprire nuove terre. E’ un genovese e un navigatore a cui stanno strette le rotte mediterranee o artiche, vuole andare ad ovest, dove ha subodorato la possibilità di approdi diversi, già raggiunti partendo da nord, dai Vichinghi… Riesce con enorme sforzo dialettico a convincere Isabella, regina di Spagna, a finanziare la sua impresa, le promette di trovare una nuova via per le favolose Indie da cui ricavare tesori inimmaginabili. Le tace la sua convinzione di “scoprire” un diverso continente.
Il Colombo morente parla diffusamente dell’arduo viaggio con le tre caravelle, del sospirato e finalmente realizzato arrivo sulla terra ferma, della delusione di non avervi trovato oro, della spasmodica ricerca di altri beni di valore da poter esibire alla regina. E del suo ritorno in Spagna, con il clamore e il trionfo iniziali e le successive pesanti critiche. Ma dà anche spazio al punto di vista degli Indiani, a come essi percepiscono gli Europei “conquistatori” in maniera assolutamente negativa, non solo per la prepotenza e l’avidità, ma anche per le abitudini del loro normale modo di vivere quotidiano: scarsa igiene, sovrabbondanza di vesti, maschili e femminili, l’andare in giro armati come se fossero in guerra…
Da tanta narrazione, avvincente narrazione, il personaggio Colombo si definisce nella sua realtà e si può dire che finalmente lo si può conoscere per davvero. Si può ammirarlo per aver inaugurato l’Uomo Nuovo, con la sua sete di conoscenza anche se non disinteressata, pragmaticamente pronto a tutto per perseguire i suoi scopi, e lo si biasima per aver strumentalizzato esseri umani, per aver inaugurato un colonialismo deteriore, per aver schiavizzato i nativi e per venderli al mercato di Siviglia. Da ultimo, assolutamente perso il senso del sacro, pure incantato dalla natura maestosa dei luoghi raggiunti, Colombo pensa di poterli “vendere sul mercato europeo” come l’Eden ritrovato, per ricavarci profitti.
Nel terzo capitolo si consuma l’ultimo atto del processo di santificazione, ora di competenza di papa Leone XIII. Come ben sappiamo, Colombo non sarà il “San Cristoforo delle Indie”. In questo finale, lo stile di Carpentier ancora una volta stupisce. Smessi i toni barocchi e colloquiali, il suo linguaggio estremamente duttile si fa ironico e creativo raggiungendo toni divertenti, senza mai perdere la profondità. Il lettore non può che goderne e nello stesso tempo ammirarne la formidabile capacità letteraria.
Apprendo che L’arpa e L’ombra non è fra le migliori opere di Carpentier, che è forse la più brutta. E quindi non posso che accingermi a leggere altri libri, di questo fantastico autore.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

L’argomento, la scrittura e la struttura del libro sono stati molto apprezzati. Non a caso Rosa ne aveva proposto la lettura proprio quando nei mesi precedenti in molti paesi al di là dell’Atlantico, c’erano state manifestazioni con abbattimento di diverse statue di Cristoforo Colombo. Il protagonista di questo libro è preso in prestito per parlare del nodo mai risolto che continua a legare nel bene e nel male la Vecchia Europa ai paesi del cosiddetto Nuovo Mondo.
Si è detto che “L’Arpa e l’Ombra” è un romanzo storico fra vero e verosimile, scritto con una prosa ricca e immaginifica, soprattutto nella descrizione delle isole caraibiche, dove Colombo era approdato, un Eldorado descritto con bellissime pagine dai colori barocchi.
E’ stato particolarmente sottolineato come Carpentier evidenzi il rapporto ambiguo fra Nuovo e Vecchio Mondo, come lo renda e come, con grande capacità, riesca ad entrare nella realtà di un periodo storico molto complesso.

La cattiva coscienza degli europei è una presenza costante nelle sue pagine.
Dopo un inizio con una scrittura quasi curiale e la seguente esplosione con descrizioni dai colori vividi dei paesi caraibici, il libro si conclude con pagine dall’ironia che ha fatto ricordare quelle di M. Bulgakov.
Si è sottolineato che i protagonisti di “L’Arpa e l’Ombra” e di “Notturno cileno” di R. Bolaño, entrambi a fine vita ne fanno un esame lucido e profondo, ma mentre nel libro di Bolaño si assiste ad una tragedia, in questo di Carpentier c’è cronaca di alto livello ma non dello spessore e della profondità dell’altro.
E’ stato citato “Il secolo dei lumi” di A. Carpentier.


Notturno cileno, di Roberto Bolaño

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24 maggio 2022

Roberto Bolaño, “Notturno cileno“, traduzione di Ilide Carmignani, Adelphi, 2016

proposto da Luciana Cusmano

di Luciana Cusmano

“Fare letteratura è un mestiere pericoloso”, afferma Bolano, “perchè la vera letteratura è sapere ficcare la testa nel pozzo, nel buio del male, sapere saltare nel vuoto”.

Il delirio notturno di un sacerdote, che in una notte drammatica ripercorre  eventi della sua vita, serve a Bolano per denunciare i compromessi e le viltà di una classe di intellettuali resasi complice del potere che ha schiacciato il Cile.

Il linguaggio fluido, ricco di metafore, spesso surreale, dalle forti connotazioni metaletterarie, fà di Bolano uno degli innovatori della letteratura latinoamericana, che si sottrae alle convenzioni di un realismo magico, saturo di epigoni, attraverso il dialogo con una tradizione sovranazionale e di aspirazione cosmopolita.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Il dialogo è stato intenso e appassionato per questo libro molto amato e definito come un piccolo grande libro rivoluzionario per i temi e soprattutto le modalità di tradurli in una pagina densa, in un racconto che dice ma non svela, lasciando al lettore la ricerca nel profondo di segni rivelatori. Infatti molte di noi hanno voluto rileggerlo una seconda volta, con grande piacere.

In particolare, si è messo in evidenza l’intensità con cui il protagonista in un continuo ininterrotto flusso di coscienza alla fine dei suoi giorni ripercorre una vita di compromessi e di tradimenti nei confronti di quel doppio di sé, da lui chiamato il “giovane invecchiato”, in pagine che si rincorrono con un ritmo incalzante.

Si è detto che Bolaño, con un racconto denso e non semplice, rende il protagonista, il cileno gesuita dell’Opus Dei Sebastian Urrutia Lacroix uomo di cultura vasta e profonda, il testimone in negativo di quanto egli pensasse sulla funzione e la responsabilità dell’intellettuale nella vita politica e sociale del suo tempo e del suo paese. Tutto il libro è un dialogo interiore che rivela un percorso di consapevolezza e non di pentimento, testimoniando dall’interno l’assenza di etica con un diretto e profondo atto d’accusa al mondo dei  letterati e delle gerarchie ecclesiastiche. E’ stato anche evidenziato che il libro a un consapevole realismo affianca anche  evidenti e complessi riferimenti simbolici, infatti sono state citate reali figure di intellettuali cileni oltre ai falchi e alle colombe produttrici di “merda”.

L’incipit forte e potente apre la prima pagina del libro che si chiude coerentemente con l’ultima che suscita in chi legge interrogativi esistenziali e storico politici. Si è sottolineato anche che in molte pagine si trovano testimonianze della profonda cultura dell’autore, testimone impegnato del suo tempo non solo con i suoi libri ma anche con difficili scelte di vita. Si è detto che i modelli europei e in particolare J.Joyce sono evidenti nella formazione culturale di R. Bolaño ed è stata in particolare sottolineata la presenza di numerose citazioni dantesche, dei colori delle poesie di Charles Beaudelaire ed infine di diversi rifermenti alla cultura greca.

E’ stato notato che i nomi che compaiono nel libro rispondono a una precisa e consapevole scelta dell’autore: Farewell vuol dire Addio, Oido palindromo odiO anche in spagnolo, Aruap palindromo di paurA in italiano, infine Lacroix che è il secondo cognome del gesuita protagonista.

Lezione di Tango, di Elsa Osorio

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26 aprile 2022

Elsa Osorio, “Lezione do Tango“, traduzione di Roberta Bovaia, TEA 2006.

Proposto da Franca, Maria Grazia e Teresa.

di Franca Botrugno, Maria Grazia Toma e Teresa Santostasi.

Il ricordo di un viaggio amato, Buenos Aires, la Plata, la musica, l’abbraccio della gente argentina e il desiderio di una lettura che si preannunziava coinvolgente, un titolo stimolante “il solletico ai piedi e a tutto il corpo che chiedeva Tango”, per tornare finalmente a danzare, dopo la pandemia.

Franca, Maria Grazia e Teresa per ragioni differenti, a settembre 2021, hanno proposto di leggere insieme “Lezione di Tango”, della scrittrice argentina Elsa Osorio. Franca e Maria Grazia lo hanno già letto durante il bel viaggio in Argentina che risale a tanti anni fa; lo propongono per rivivere le atmosfere del Tango e per provare a “ballarlo” con le amiche del gruppo di lettura. Teresa, che non lo ha ancora letto, si è lasciata sedurre del titolo e dalla recensione che racconta di una danza simbolo dell’identità argentina, dove il Tango prende parte alla vita dei personaggi, intrecciandosi con le loro storie e avendo come sfondo la situazione politica del paese sudamericano di fine ottocento, dalle prime ondate immigratorie, i primi moti socialisti, fino alla dittatura militare nel 1930.

Il racconto è una saga corale di diverse generazioni nella quale si muovono numerosi personaggi collocati in tempi e luoghi diversi con i quali non è stato facile destreggiarsi nella lettura. In una milonga parigina si incontrano Ana, giovane sociologa ricercatrice nata a Buenos Aires, ma emigrata da piccola in Francia e Luis, un regista argentino di passaggio a Parigi. Entrambi hanno la passione per il tango. Il pretesto narrativo nasce dal passato argentino che accomuna i due personaggi: il bisnonno di Ana, Hernàn Lasalle, era un grande ballerino di tango e Asunciòn, bisnonna di Luis e domestica in casa Lasalle, che condivideva con Hernàn l’attrazione per il tango e un amore impossibile.

La particolarità del romanzo, il cui titolo originario è “Cielo di Tango”, è la presenza di un personaggio incorporeo, il Tango, che diventa qui simile ad un luogo dove i diversi personaggi oramai defunti, tornano a vivere come voci di un Coro in remoto che commentano e partecipano emotivamente alle vicende dei viventi, tanto quanto i personaggi stessi.                        

Di non semplice lettura, il racconto della Osorio, sovrapponendo tempi diversi, discorsi diretti ed indiretti, trasferendo un soggetto narratore ad un altro, ricorda il ritmo del Tango basato sull’improvvisazione, caratterizzato dall’eleganza delle pause, da movimenti rigidi, con brusche impennate, casquet e dalla passionalità. La storia raccontata è in realtà l’evoluzione del Tango la cui musica risuona in ogni pagina, trasmettendo un sentimento di passione, ma anche di amarezza e malinconia che prende origine dalle storie di migrazione nel’’800. L’Autrice esprime nel suo racconto, l’anima del Tango, un ballo che è diventato parte integrante della cultura argentina, dove immigrati e crillos si sono fusi in una danza che è anche un abbraccio.

“E in noi che lo balliamo” dice Carlota “il corpo si muove con una volontà propria, indipendente da ogni idea…come se fosse posseduto…lasciarsi abitare da Tango”; “Quel che è certo è che Tango si è espresso attraverso di noi”, dice Hernàn, “tutti insieme nessuno in particolare, abbiamo fatto Tago e per questo siamo qui. Ce lo siamo conquistati”.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

E’ stato detto che il libro non è del tutto riuscito sotto vari aspetti. Deludente in particolare perché non sa far parlare la storia come invece si riprometteva e in qualche modo ammicca al modello del romanzo ottocentesco europeo. I personaggi percorrono pagine in un intrico di situazioni, luoghi e tempi diversi che si sovrappongono e che rendono ardua la lettura, tanto che per renderla più agevole è stato necessario costruirsi una mappa con nomi e relazioni di parentela. 

Il libro è stato definito in parte artificioso, costruito con frammenti di cronaca,  non raggiungendo così né profondità né emozione nel delineare i personaggi.

Il Tango non è l’unico protagonista perché la storia è corale, con un racconto che procede proprio come un tango con slanci, pause, riprese e inversioni di rotta, che sono proprio la nota o meglio lo spartito di questo libro con tutte le difficoltà che ne comporta la lettura. Il testo risulta alcune volte divertente, ma in definitiva deludente.

Sono stati anche evidenziati alcuni caratteri specifici di una parte della tradizione latino-americana, il rapporto con i morti, la presenza di una meta-realtà sia a livello collettivo che personale.

Naturalmente si è parlato del Tango e sono stati citati:

  1. il film “Lezioni di tango” di e con Sally Potter, film del 1997. Il film non ha alcuna relazione con il libro di Elsa Osorio
  2. “Il Tango” di Jorge Luis Borges, Adelphi, 2019
  3. “Evaristo Carriego” di Jorge Luis Borges, Einaudi, 1972

Cacao, di Jorge Amado

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15 marzo 2022

Jorge Amado, “Cacao“, traduzione di Daniela Ferioli, Einaudi, 2015. Proposto da Elisa Cataldi.

di Elisa Cataldi

Alla fine del 1800 – inizi del 1900 l’Europa e l’America del Nord si scoprono golose di Cioccolata: questo rappresenta lo stimolo per i latifondisti (o aspiranti tali) dell’America Latina ad una deforestazione selvaggia per fare spazio a monocolture di CACAO. Gli stati a sud di Bahia diventano l’Eldorado anche per migliaia di braccianti che si trasferiscono nelle “fazendas” col miraggio di guadagni che migliorino la loro atavica miseria. I proprietari delle piantagioni però, conoscono una sola legge: la produzione del Cacao e la sua quotazione. Lo sfruttamento della manodopera diventa clamoroso, configurando condizioni di vera e propria schiavitù.

Jorge Amado, all’età di 20 anni, nel 1933, avendo assistito direttamente a queste perequazioni sociali in quanto figlio di un proprietario terriero, grande produttore di cacao, scrive questo piccolo libro di denuncia (116 pagine) che risulta molto efficace e coinvolgente. Lo stesso Autore dice che non si tratta di un romanzo, non è letteratura, non vi è raccontata una storia vera e propria, ma dopo averlo letto risulta chiaro che oltre l’impegno politico, siamo di fronte ad un’opera di altissima letteratura, eccome!!! Si tratta di uno spaccato di quella società fatta di soprusi ed ingiustizie, che J. Amado denuncia con una scrittura semplice e diretta ma con la eccezionale capacità affabulatoria coinvolgente e ricca di sensualità, che caratterizzerà tutta la sua opera successiva.

Una miriade di personaggi vivi, pulsanti, dai sentimenti forti, intensi nell’allegria come nel dolore. Personaggi di fronte ai quali non si può restare indifferenti, così ben disegnati nel loro profilo psicologico, che non si fa fatica a riconoscere il prepotente, l’ingenuo, l’arrivista, il cattivo, l’amico, l’arrogante etc. Lo scrittore ci fa immergere in atmosfere di sopraffazione, di arroganza, di sofferenza, di rabbia, di odio, ma anche di amicizia, di solidarietà tra gli ultimi della terra e di estrema dignità. Un piccolo gioiello insomma, che ci fa comprendere i motivi di una svolta comunista e dell’inizio di una coscienza di classe come dice l’autore, col cuore pulito e felice.

Complementare a questa narrazione è risultato il supporto di: “Le vene aperte dell’America Latina” di Eduardo Galeano, che sviluppa le stesse tematiche anche se col taglio non più di un’opera letteraria, ma di una vastissima ed esaustiva inchiesta giornalistica.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Il libro è risultato a tutte molto interessante e anche coinvolgente. Interessante per i temi storici, politici e sociali nel Brasile dei primi anni ‘30, ma anche coinvolgente per la scrittura alta di  J. Amado ancora in giovane età, quando scrisse questo libro. A più voci si è parlato di alta letteratura per la capacità dimostrata nel delineare i personaggi con pochi efficaci tratti e con una scrittura essenziale e diretta.

Molti i temi che il libro affronta e che sono stati colti e sottolineati.

J. Amado dichiara esplicitamente nella nota iniziale, il suo intento di aver voluto scrivere un libro politico, infatti la sua attenzione è in particolare focalizzata sulla presa di coscienza della solidarietà di classe da parte del giovane protagonista, intorno al quale si muovono personaggi appartenenti a classi sociali distanti e contrapposte che evidenziano le contraddizioni di quella società in quel momento storico. In particolare si è parlato della complessità di tutte le figure femminili, che anche in questo libro di J. Amado hanno una dimensione da protagoniste, come saranno ancor più nei libri scritti nella maturità.

Molto interessanti sono stati i riferimenti alla storia del Brasile fatti da Monica, che ci hanno permesso di cogliere una serie di sfumature che Amado è riuscito a far trasparire dalle pagine di questo piccolo e denso libro.

E’ stato fatto anche un ardito confronto con l’esperienza di Carlo Levi in luoghi e tempi diversi, ma con emozioni, scelte politiche simili e la volontà di denuncia di profonde ingiustizie sociali.

E’ stato detto che molti temi che J. Amado ha affrontato e denunciato nei suoi primi libri compaiono in “Le vene aperte dell’America Latina” di E. Galeano, scritto negli anni ’60. E’ anche stato sottolineato come ancora oggi la situazione di subordinazione delle classi lavoratrici rispetto alla classe dei padroni e al grande capitale internazionale, sia rimasta la stessa in America Latina dopo la violenta cancellazione di tentativi di nuovi ordinamenti democratici nel secolo scorso.

Accanto ai temi politici si è parlato della qualità letteraria di questo libro, per la sua costruzione, per il colore dal quale traspare il netto confronto etico ed estetico fra il mondo dei ricchi e quello dei “nati vinti”. Infine è stata sottolineata la felice chiusura del libro che si apre alla speranza, una speranza che nasce dalla consapevolezza dei propri diritti: “Partivo per la lotta con il cuore libero e felice”. Sono stati fatti riferimenti alle ricerche di Claude Lévi-Strauss, ai rapporti di J. Amado con J.P. Sartre e A. Camus.

Per un approfondimento sulla storia dell’America Latina al tempo della conquista, si è detto che è importante e molto interessante “La conquista dell’America. Il problema dell’altro” di Tzvetan Todorov, Einaudi.

La vita bugiarda degli adulti, di Elena Ferrante

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22 febbraio 2022

Elena Ferrante, “La vita bugiarda degli adulti”, Edizioni e/o, 2019, pag. 336. Proposto da Monica Mc Britton.

di Monica Mc Britton

Perché ho proposto la lettura di “La vita bugiarda degli adulti”?

Innanzitutto, perché è di Elena Ferrante e lei è una scrittrice italiana contemporanea che mi piace, la ritengo stimolante, complessa, non-banale e un esempio di scrittura femminile. Tutti questi elementi mi hanno fatto venire il desiderio di sentire anche voi, di avere un confronto. Del resto, il mio interesse per Elena Ferrante era sufficientemente solido da consentirmi di proporvi un testo che non avevo ancora letto.

In merito alla sua scrittura, ci sono una serie di interventi. Anche Lei interviene spesso. Trattasi di un modus operandi un po’ particolare. Come si sa, Elena Ferrante è pseudonimo: non sappiamo chi sia. Girano una serie di ipotesi. Francamente la questione mi lascia fredda. In definitiva, condivido l’idea che la personalità concreta di uno scrittore o una scrittrice è secondaria. Tuttavia, mi interessa molto la riflessione che un Autore o una Autrice fa della sua attività di scrivere. Così ho letto anche “I margini e il dettato”, pubblicato da Elena Ferrante nel 2021, che contiene tre lezioni all’Università di Bologna e un saggio su Dante. In queste lezioni, Lei sottolinea come è passata – anche grazie alla lettura di Adriana Cavarero, “Tu che mi ascolti, tu che mi racconti” (un libro che anche io amo molto) – da una scrittura fondata sulla narrazione autobiografica del personaggio femminile ad una narrazione, sempre in prima persona, ma fondata su una relazione (“L’amica geniale”) ad una pluralità di relazioni, come è il caso di questo romanzo.

In questo romanzo, appunto, non c’è solo il rapporto fondamentale fra Giannina e la zia Vittoria, il quale scatena una serie di altri rapporti, ma è anche la relazione che obbliga Giannina a rivedere i suoi rapporti con le sue amiche di sempre e quindi impostarli diversamente. In ultima analisi è un romanzo di formazione ed è intrigante l’espediente del braccialetto che, man mano che il testo si sviluppa, assume una dimensione quasi magica. In questo senso, può essere letto come una rivisitazione di un amuleto napoletano…Ed è anche il pretesto per evidenziare una serie di “bugie” degli adulti. Per ultimo, vorrei chiamare l’attenzione sulla rilevanza di Napoli e sulle soluzioni letterarie utilizzate per evocare il dialetto napoletano. Rispetto a quest’ultimo profilo, il dialetto è evocato, ma non puntualmente trascritto.

Post-scriptum: A seguito degli stimoli pervenuti dalla discussione, mi viene da aggiungere che questo sicuramente non è il miglior lavoro di E. Ferrante e quindi è non molto adatto a invogliare all’approfondimento della sua opera. Tuttavia, rimango convinta che, nel panorama, odierno, l’A. merita di essere letta.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

“Romanzo di formazione; senza anima, non genera emozioni; storia ben articolata, molto ben raccontata la complessità delle relazioni fra le persone; romanzo mediocre sulla mediocrità; l’intreccio della storia è realistico e credibile; molto ben raccontata la psicologia dei personaggi, gli adulti con la loro pochezza e soprattutto la complessità dell’adolescenza; linguaggio ruvido; molto ben scritto; scrittura banale, sovrabbondante; personaggi senza sfumature; brutta copia dell’”Amica geniale”; noioso; retorico; la presenza di Napoli è ben costruita; Napoli è sbiadita non c’è il carattere della città; Napoli il macrocosmo in cui si muove una micro storia simile a tante; è un’operazione editoriale; è una scrittura autobiografica sulle relazioni fra donne; interessante uso indiretto del dialetto; racconto privo di spessore; il finale aperto è molto simile alle serie televisive; il finale aperto può voler dire una ripartenza nella vita della protagonista o della storia.

L’anonimato della scrittrice sembra una sapiente operazione di promozione; l’anonimato è una ragione di tutela della libertà personale.”

Tutto questo si è detto con toni diversi e  contrastanti,  sempre molto appassionati.

Durante la discussione sono stati citati:

“Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione”, Adriana Cavarero, Feltrinelli, 2001

“I margini e il dettato”, Elena Ferrante, ed. e/o, 2021

“Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma”, Enrico Terrinoni, Feltrinelli, 2022

“Napoli porosa”, Walter Benjamin, Asja Lacis, Libreria Dante&Descartes, 2020

“Leggere gli uomini”, Sandra Petrignani, Laterza, 2021

“Lessico femminile”, Sandra Petrignani, Laterza, 2019

“Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici”, Daria Bignardi, Einaudi, 2022. P. 176

Un brav’uomo è difficile da trovare, di Flannery O’Connor.

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18 gennaio  2022

Flannery O’Connor, “Un brav’uomo è difficile da trovare”, Minimum fax, 2021, p. 283. Proposto da Adriana Pepe.

di Adriana Pepe

   La recente riedizione di questa raccolta di dieci racconti, la prima pubblicata da Flannery O’Connor nel 1955, ci ha dato l’occasione per accostarci a questa singolare scrittrice, una delle voci più originali della letteratura nordamericana della prima metà del Novecento.  La bella traduzione di Gaja Cenciarelli preserva la straordinaria forza espressiva della scrittura della O’Connor, crudamente realistica ma anche densa di suggestioni emotive e visive. Sin dal primo racconto che dà il titolo alla raccolta – la storia pulp della strage, su una strada di campagna della Georgia, di una  famigliola in vacanza, ad opera di tre assassini evasi – si evidenzia il feroce sarcasmo, il gusto del grottesco che costituiscono la cifra essenziale della narrativa della O’Connor. Caratteristiche  che hanno fatto considerare questa scrittrice – nata a Savannah in Georgia e vissuta per la maggior parte della sua breve esistenza  (1925-1964) nella fattoria di famiglia di Milledgeville – una esponente significativa della cosiddetta “Southern Gotic literature”. Grottesco, mistero, violenza, orrore sono aspetti tipici di questo filone letterario (Carson McCullers, Truman Capote, Tenneesse Williams, per certi versi anche W. Faulkner), alimentato dalla forte tradizione orale, intrisa di elementi afro, degli stati del Sud. Ma la O’Connor, nei suoi numerosi saggi sulla tecnica e il significato della sua scrittura, prende le distanze da questo tipo di narrativa. Animata da una salda fede cattolica (la sua famiglia è di origine irlandese), sostenuta da studi di teologia e sociologia, la O’Connor permea i suoi racconti di un profondo senso del divino e conferisce al grottesco e alla violenza una dimensione fortemente simbolica,  espressione di una umanità marchiata nel corpo e nello spirito dal peccato originale. Una umanità che attraverso una situazione estrema, un evento traumatico, arriva a riconoscere la misteriosa azione  salvifica della Grazia. I racconti, come i suoi due romanzi – La saggezza nel sangue (1952) e Il cielo è dei violenti (1962)- sono popolati da “brava gente di campagna” bigotta e razzista, da predicatori folli, falsi profeti, personaggi la cui tara morale  si concretizza spesso in deformità fisica o psichica. Con l’arma del paradosso e di una feroce ironia la O’Connor esprime una dura presa di posizione verso gli aspetti deteriori della società – perbenismo ipocrita, razzismo, proliferazione di strane sette religiose- negli stati del Sud degli anni Cinquanta. 

Per una più approfondita conoscenza di questa scrittrice: Fernanda Rossini, Flannery 0’Connor. Vita, opere, incontri, Edizioni Ares 2021

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Per alcune è stata una vera scoperta questa grande scrittrice americana del ‘900, erede di W. Faulkner, N. Hawthorne e per certi aspetti anche di E.A. Poe.

Da tutte è stato particolarmente sottolineato l’alto livello della scrittura straordinaria, raffinata e densa di suggestioni, con uno stile asciutto e essenziale, apparentemente semplice e si è anche ricordata l’esperienza formativa della O’Connor come autrice di strisce a fumetti satirici. Differenti sono state le reazioni alle storie di questa umanità dolente e scomoda, condannata a un esito esistenziale oscuro. Il grottesco, l’orrore e il senso del mistero che caratterizzano parte della tradizione letteraria della letteratura del Sud degli Stati Uniti ricorrono nelle pagine di questi racconti, dove la violenza e l’infelicità trovano una promessa di riscatto solo nella profonda spiritualità e religiosità dell’autrice. Il suo pungente sarcasmo prende le distanze dal mondo bigotto delle tante sette religiose che già negli anni in cui lei scriveva, raccoglievano sempre più adepti in particolare negli Stati del Sud, ancora oggi espressione di un mondo conservatore e chiuso.

Si è detto che le storie di questi racconti riflettono un mondo di miseria morale, senza utopia, che al verificarsi di un imprevisto diventano dramma. E’ stato anche sottolineato che Flannery O’Connor aveva fatto studi di sociologia ed è stato evidenziato come, con i ritratti di una umanità predestinata al male, si sia collocata  rispetto alla scuola teorica degli anni in cui aveva studiato.

In fine è stata posta la questione di quale fosse un possibile specifico femminile nella scrittura di Flannery O’Connor, decidendo di ritornare su questo tema in altra occasione.

Durante l’incontro si è fatto riferimento anche a Tennessee Williams, Truman Capote, William Faulkner, al cinema di Joel ed Ethan Coen, al film di John Huston “La saggezza del sangue “ del 1979 e al film documentario “Flannery” a lei dedicato del 2019.

Quando tornerò, di Marco Balzano

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16 dicembre 2021

Marco Balzano, “Quando tornerò”, Einaudi, 2021. Proposto da Elisa Cataldi

di Elisa Cataldi

Entroterra rurale dei paesi dell’Est Europa dopo la disastrosa caduta dell’impero sovietico, “paradiso” socialista che comunque assicurava un lavoro a tutti. Ora c’è solo miseria, ora si può solo emigrare per sopravvivere, per assicurare ai propri figli una vita decente, un’istruzione, un futuro.

Ma in questo caso, ad emigrare sono per lo più le donne, spesso anche con alti livelli di scolarizzazione. Gli uomini invece restano a casa, spesso rozzi, ignoranti, tenacemente attaccati al loro ruolo di padre-padrone, spesso dediti all’alcool. Ma soprattutto, a restare a casa sono i figli, molti anche in tenera età, bene o male affidati a parenti anziani (il cosiddetto fenomeno degli ORFANI BIANCHI ).

E’ il fenomeno delle BADANTI. La opulenta società europea, e soprattutto italiana, a partire dagli anni ’90,  ha scoperto la comodità di delegare la cura dei propri anziani alle donne dell’Est, spesso sottopagandole e “in nero”. Una moderna schiavitù che comporta la disgregazione di intere famiglie, la crisi irreversibile di rapporti famigliari e tanto tanto dolore sia in chi va (“ Mal di Italia”), che in chi resta.

Marco Balzano racconta nel suo “Quando tornerò”, di un caso paradigmatico di questo fenomeno. Ci fa riflettere, dà voce a chi non ce l’ha, perché … ”loro badano ma nessuno bada a loro!”

Una storia durissima e crudele nella quale l’autore ascolta con rispetto ed empatia il dolore di queste persone.

Lo fa con una scrittura facile, lineare, forse un po’ piatta e banale: a fronte di una problematica sociale ed umana tanto importante; la narrazione spesso non risulta abbastanza coinvolgente ed emozionante.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura

Unanime è stato il giudizio sull’importanza del tema scelto dall’autore e anche sullo stile piatto e facile della pagina, ma molto differenti i pareri sul libro. Per alcune i temi trattati sono così tanto importanti da far esprimere un giudizio positivo complessivo, mentre per altre molto chiaramente il risultato è deludente sia per la qualità della scrittura che per la struttura stessa del romanzo, i cui personaggi hanno una loro oggettiva drammaticità che risulta banalizzata nel testo. Vera ha approfondito e spiegato quello di cui si parla nella nota finale del libro dove Balzano scrive di “Male d’Italia” e di “Orfani bianchi”, denunciando così esplicitamente le ragioni da cui è nato il suo romanzo, che cerca di dar voce alle donne che vengono dai paesi dell’Est ad assistere i nostri anziani e ai loro figli rimasti a casa, sconvolgimenti sociali e problematiche umane che trovano impreparate le nostre società, che non sanno affrontare la vecchiaia sempre più avanzata e diffusa, lasciando alle leggi del mercato la soluzione.

Il Bacio della donna ragno, di M. Puig

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9 novembre 2021

Manuel Puig, “Il bacio della donna ragno“, traduzione di Angelo Morino, SUR, 2017.  Proposto da Vanda Morano

di Vanda Morano

Nella convivenza forzata della cella di una prigione argentina un oppositore politico ventiseienne e un omosessuale più maturo imparano a conoscersi superando le diversità. In un ambiente claustrofobico e difficile accade quello che altrove non si sarebbe mai realizzato: amicizia e forte coinvolgimento emotivo. E’ il cinema che crea  un canale di comunicazione che annulla le differenze. Il fragile omosessuale Molina ne conosce la magia e racconta trame di film degli anni ’40; Valentin, spavaldo e controllato, lentamente si fa sedurre, le sue certezze franano. Molina ‘accende lo schermo’. Hollywood regala l’incantamento di terre lontane, di amori esaltanti e la possibilità di sentirsi ‘altri’. La prossimità fisica tra i due diventa rapporto più intimo e occasione per una riflessione ‘politica’. Valentin spinge il compagno di cella a non assumere nella vita di relazione solo un ruolo passivo  e gli chiede anche di contattare i suoi compagni di lotta. Sarà la morte che segnerà un ribaltamento dei ruoli: Molina farà una scelta eroica e Valentin, torturato e sotto l’effetto della morfina, vivrà una allucinazione liberatoria dei sentimenti.

Un romanzo che parla di cinema ma anche di violenza politica, di confini di genere, di tradimenti, di amore, di relazioni familiari, di ambiguità, di concretezza e di immaginazione. L’architettura è sperimentale e si articola in una originale serie di prove stilistiche perfettamente calibrate: liriche descrizioni di film, flussi di coscienza, rapporti di polizia e notizie a piè di pagina sulle teorie psicanalitiche.

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l’Acrobata, di Laura Forti

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11 ottobre 2021

Laura Forti, “L’Acrobata”, Giuntina, 2019. Proposto da Isa Bergamini

di Isa Bergamini

E‘ la biografia elaborata dalla scrittrice, di una famiglia ebraica che attraversa il secolo e i continenti.  Racconta un dramma esemplare nel Cile violato dalla dittatura, attraverso il soliloquio introspettivo di grande intensità di una donna.

Si affacciano molti temi importanti per problematicità  e forza di coinvolgimento: la questione ebraica; l’esilio e le separazioni; la nascita di una figlia fragile che travolge la vita di una famiglia; l’influenza e la responsabilità storica e culturale dei movimenti di destra latino-americani; I movimenti marxisti dei giovani ed in particolare la loro matrice nella tradizione ebraica; la difficoltà di decidere da parte di una madre, se interferire nelle scelte di vita di un figlio anche quando possono metter in pericolo la vita stessa; il ricordo di un vissuto che si vorrebbe seppellire e che ritorna con forza nel momento in cui con la consapevolezza di essere arrivata a fine vita, la protagonista sceglie di raccontare e scrivere la sua testimonianza, perché il ricordo si faccia nuovamente vita nel passaggio di testimone a chi continuerà a tenerlo vivo.

Acrobata è il nipote che ha scelto di fare l’acrobata-pagliaccio nel circo e su un filo attende di sapere, acrobata é stato il figlio sul filo fra vita e morte nelle sua difficile e drammatica vita e acrobata é anche la nonna che scrive, fra il suo buio dolore per la morte del figlio e la forza della positività che ha sempre sentito nella sua vita.

Il libro é scritto con una affinata scrittura tutta femminile che si rivela in particolare quando fa sentire quanto sia veramente ancestrale il rapporto di una madre con un figlio e i fili che li legano anche con la struggente consapevolezza della separazione, dello strappo, del taglio, che avviene numerose volte nel tempo di una vita, di quel cordone ombelicale che pur sempre lascia un segno, una ferita, una cicatrice ad entrambi.

Altrettanto importante é il tema dell’oblio, come elemento della nostra vita e non rifugio dall’ossessione del passato, l’oblio che serve a rielaborare la vita passata nel ricordo per raccontarla. Il racconto  della nonna non avviene a voce ma attraverso la rielaborazione della scrittura trasfigurando così la vita vissuta in quella forma di oblio che é il ricordo.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Ad inizio del nostro incontro abbiamo ricordato che il 5 ottobre 1988 un plebiscito in Cile,  determinò dopo 15 anni, la fine della brutale dittatura di Augusto Pinochet e si è ricordato anche il lucido, profondo e applauditissimo discorso di Salvador Allende all’ONU nel dicembre 1972, solo 9 mesi prima del colpo di Stato che determinerà la fine della vita democratica in Cile.

Il libro denso di tematiche, con una scrittura forte e profondamente femminile, è risultato interessante, coinvolgente e intenso. La biografia elaborata da Laura Forti,  di una famiglia ebrea che attraversa il secolo e i continenti, racconta un dramma esemplare nel Cile violato dalla dittatura, attraverso il soliloquio introspettivo di grande intensità di una donna.

Si affacciano in queste pagine molti temi importanti per la loro problematicità e per la forza nel coinvolgimento di chi legge, fra i quali: la questione ebraica; l’esilio e le separazioni; la nascita di una figlia fragile che travolge la vita di una famiglia; l’influenza e la responsabilità storica e culturale dei movimenti di destra latino-americani; i movimenti marxisti dei giovani ed in particolare la loro matrice nella tradizione ebraica;  la difficoltà di decidere da parte di una madre, se interferire nelle scelte di vita di un figlio anche quando possono metterne in pericolo la vita stessa; il ricordo di un vissuto che si vorrebbe seppellire e che ritorna con forza vitale nel momento in cui con la consapevolezza di essere arrivata a fine vita, la protagonista sceglie di raccontare e scrivere la sua testimonianza, perché il ricordo si faccia nuovamente vita nel passaggio di testimone a chi continuerà a tenerlo vivo.

Si è anche parlato dello spettacolo a cura del Teatro dell’Elfo, la puntuale regia di Elio De Capitani con una grande Cristina Crippa e il bravo Alessandro Brini Ocaña, visibile su Raiplay, se ne è sottolineata la grande efficacia nel tradurre un racconto in un testo per il teatro, rispettandolo nelle sue pagine e articolandolo con sapienza per le esigenze della rappresentazione.

Sono stati citati i seguenti libri:

Le vene aperte dell’America Latina, Eduardo Galeano, Sperling&Kupfer, 1997

La solitudine del sovversivo, Marco Bechis, Guanda, 2021

Funes, l’uomo della memoria, in Finzioni, Jorge Luis Borges, Adelphi, 2003

Gli abusi della memoria, Tzvetan Todorov, Meltemi, 2018

“Io, figlio di mio figlio”, di Gianluca Nicoletti.

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21 giugno 2021

Gianluca Nicoletti, “Io, figlio di mio figlio“, Mondadori 2018. Proposto da Franca Botrugno

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

L’ultimo incontro dell’anno di Leggermente, al Fanale Borbonico fra grandi navi, ci ha viste felici di poterci di nuovo incontrare.

Abbiamo parlato di “Io, figlio di mio figlio”, di Gianluca Nicoletti, Mondadori, 2018, e ha condotto Franca.
La discussione è stata appassionata intorno ad un tema che ha interessato tutte non solo per ragioni di solidarietà, ma anche perché è risultato evidente quanto ancora poco si sappia dell’autismo e in generale delle neuro diversità. Si è evidenziato come tanti sono i bimbi, gli adulti e le loro famiglie che sostengono una condizione che diventa disagio per la solitudine nella quale spesso sono relegati.
Il libro di Nicoletti è stato visto soprattutto come un documento di denuncia, ma da alcune è stato anche detto di averlo letto con fatica e in particolare è stato sottolineato un procedere logorroico e in molte pagine ripetitivo, con una scrittura veloce e aggressiva. Sono poi stati evidenziati alcuni temi che ricorrono come un “refrain” nel libro, la solitudine di questo padre e l’angoscia per quello che succederà a un figlio “con un cervello diversamente programmato”, quando suo padre non ci sarà più.  

Nemesi, di Philip Roth

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18 maggio 2021

Philip Roth, “Nemesi”, Einaudi 2011. Proposto da Vanda Morano.

di Vanda Morano

Nel 1944  una epidemia di poliomielite sconvolge la quieta ordinarietà della cittadina di Newark dove vivono in confini separati vari gruppi etnici. Dapprima si diffondono sconcerto, poi paura e chiusura in una crescente tensione. La narrazione si concentra su Cantor, giovane ragazzo limitato da gravi problemi di vista che comunque ha trovato una collocazione nella società come allenatore di successo e fidanzato di una ragazza che appartiene all’upper class. La malattia e la morte scompaginano tutti i progetti e danno una nuova misura alle cose.

E’ la Nemesi, è la giustizia compensativa che interviene quando si è andati oltre. Torna in Roth il tema del fallimento del sogno americano. Cantor combatte una guerra ingiusta e terribile perché assale gli innocenti. Inconsapevole portatore di contagio, si isola nel suo senso di colpa e dubita anche di Dio. Alla fine per lui la storia rimane solo un rumore di fondo in cui vivere una pace scolorita e il ricordo di un amore che non si è compiuto. Fanno da controcanto nel romanzo i suoni: le lugubri sirene delle ambulanze e la melodia nostalgica di “I’ll be seeing you”.

Un Roth lontano dalle irriverenze e dalla teatralità barocca. Un Roth che predilige toni più pacatamente e nostalgicamente composti.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

“Un libro deve spingersi oltre l’intenzione del proprio autore. L’intenzione dell’autore è una povera cosa umana, fallibile, ma nel libro deve esserci di più.” Così scrive J.L. Borges, e forse mai come in questo incontro, le impressioni e riflessioni sono state così ricche per diversità, per approfondimenti e forse sono andate anche ben oltre le intenzioni dello scrittore.

Si è detto di aver trovato in questo libro il crollo di tutte le illusioni in un clima di grande tensione  e si è parlato in particolare di Bucky, un personaggio che la scrittura di Roth trasforma nel prototipo di uomo che non si mette in discussione, cristallizzato nella sua incapacità ad essere felice. Accanto alla maggioranza delle voci che hanno visto Backy come un uomo fragile e oppresso da un forte dilemma morale e chiuso in se stesso, ci sono state anche altre letture che hanno visto nella vita infelice di Backy, una sua scelta, un atto di forza e di superbia nei confronti di quel Dio che in quell’estate del 1944 assisteva impietoso, a quello che stava accadendo a Newark, in Europa e nel Pacifico.

Come per altri libri di Philip Roth, le sue pagine sono state molto amate da noi tutte, per la grande narrazione, per la ricchezza e profondità dei temi che affronta e soprattutto per l’analisi puntuale dei personaggi accompagnati sempre però da una lucida pietas. Un Philip Roth pacificato in questa ultima stagione della sua vita, che continua a fari i conti con il tema della morte ormai con la coscienza che la vita va accettata per quella che è, con o senza Dio.

Una storia di amore e di tenebra, di Amos Oz

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20 aprile 2021

Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2002. Proposto da Luciana Cusmano

di Luciana Cusmano

“Una storia di amore e di tenebra” é una narrazione autobiografica, densa delle drammatiche vicende che hanno spinto decine di migliaia di Ebrei, nei primi decenni del ‘900, ad abbandonare tanti paesi dell’Europa orientale e dei confini occidentali della Russia per cercare riparo ed un possibile futuro nella mitica terra dei Padri: la Palestina. L’estrema povertà delle loro risorse e il difficile, quasi impossibile, adattamento ad una natura dei luoghi e a consuetudini socioculturali tanto differenti, hanno prodotto nelle vite dei genitori e dei nonni dell’Autore sofferenze inestinguibili, che non hanno risparmiato neppure le generazioni di coloro che in questa terra promessa sono nati. E allora, ecco la fuga di Amos da quei ricordi, la sua nuova vita tra i forti e abbronzati pionieri dei kibbutz, pronto ad affiancarli di giorno nei duri lavori della terra e a parlare con loro di poesia e filosofia di notte, sotto una tenda, nel deserto. Ma la peculiare cultura familiare assorbita fino all’adolescenza è un richiamo ineludibile, che egli asseconderà con profondità di analisi, poesia, umanesimo molti anni dopo. 

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Intensi sono stati gli interventi che hanno dimostrato quanto appassionante sia stata la lettura di questo libro e quanto interesse ci sia stato per i tanti temi e le complesse problematiche che affronta. E’ stato definito un “romanzo magnifico” che raccoglie le voci di un popolo in un momento importante, in uno snodo fondante della sua storia contemporanea. La storia della nascita dello Stato di Israele si interseca con la storia personale dell’autore.

Amos Oz con la sua personalità di grande scrittore riesce a trasfigurare persone reali in personaggi con pagine di grande lucidità storico-politica a fianco a pagine di grande lirismo. Anche con una seconda lettura, quale è stata per alcune di noi, resta un libro importante e da ricordare, per i temi profondi, le riflessioni, il distacco e la coscienza critica che lo accompagna all’accostarsi ai temi della storia e della politica. E’ stata anche sottolineata la sapiente e appassionata traduzione di Elena Loewenthal.

Durante l’incontro sono stati citati questi libri:

1)        Gli ebrei e le parole, Amos Oz e Fania Oz, trad. E. Loewenthal, Feltrinelli, 2015
2)        L’alfabeto ebraico, Paolo De Benedetti, a cura di Gabriella Caramore, Morcelliana, 2011

Sono stati anche indicate le serie televisive:

1)        “Unorthodox” miniserie di 8 episodi su Netflix

2)        “Shtisel” 33 episodi per tre stagioni, in lingua originale e con i sottotitoli, su Netflix. Di questa serie se ne è parlato a: 1) Uomini e Profeti, radio 3 Rai il 24 aprile; 2) Radio 3 Mondo del 21 aprile. Tutti gli episodi si possono riascoltare sul sito di Radio 3 in podcast.

Martedi 27 aprile 2021, il gruppo di lettura si è riunito per riflessioni e comunicazioni su alcuni temi della cultura ebraica. Non si è parlato direttamente della Shoa, della tragedia che ha sconvolto l’Europa, ucciso gli ebrei e cancellato la loro memoria, ma naturalmente, è stata sempre sullo sfondo dei nostri discorsi. L’incontro si è concluso con la lettura di alcune storie dell’umorismo ebraico.

Si è fatto riferimento a diversi libri fra i quali:

  1. Contro il fanatismo, Amos Oz, trad. E. Loewenthal, Feltrinelli, 2007
  2. Il sonno della memoria, Barbara Spinelli, Mondadori, 2001
  3. Gli ebrei questi sconosciuti, Elena Loewenthal, Baldini &Castoldi, 1996
  4. Figli di Sara e Abramo, Elena Loewenthal, Frassinelli, 1995
  5. L’ebraismo spiegato ai miei figli, Elena Loewenthal, Bompiani, 2002
  6. Eva e le altre, Elena Loewenthal, Bompiani, 2005
  7. L’ebreo che ride, Moni Ovadia, Einaudi, 1998
  8. Il conto dell’ultima cena, Moni Ovadia, Einaudi, 2010
  9. Così giovane e già ebreo, M.A. Ouaknin, D. Rotnemer, trad. M. Ovadia, Piemme
  10. Cosa hanno mai fatto gli ebrei? Dialogo tra nonno e nipote sull’antisemitismo, Roberto Finzi, Einaudi, 2019
  11. All’erta siam razzisti, Rosellina Balbi, Mondadori, 1988
  12. Gerush 1492-1510. Espulsione degli Ebrei dalla Sicilia e dal Meridione d’Italia, A.V., Ass. Ebraico-Cristiana di Torino, 2011
  13. Vademecum per il lettore della Bibbia, Ass. Biblia, Morcelliana, 2017
  14. La famiglia Karnowski, Israel Joshua Singer, trad. A.L. Callow, Adelphi, 2015
  15. L’uomo che vendeva diamanti, Esther Singer Kreitma,  Morpurgo, 2016
  16. La moglie del rabbino, Chaim Grade, trad. A.L.Callow, Giuntina, 2019
  17. Un’eredità di avorio e ambra, Edmund De Waal, Bollati Boringhieri, 2011

Memorie di una ragazza per bene, di Simone De Beauvoir.

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23 febbraio 2021

Simone De Beauvoir, Memorie di una ragazza per bene, Einaudi, 1960

di Virginia Manchisi

Ho scelto questo libro perché, come riportato sul retro della copertina dell’edizione Einaudi, “è il primo tempo dell’autobiografia di una donna che voleva prima di tutto essere libera”. Libertà é la parola chiave sulla quale si struttura tutta la dinamica del testo, ed è partire da questa parola che il passato trova il suo significato. In questo libro, in uno stile raffinato e fortemente evocativo, la De Beauvoir, partendo dal racconto della sua infanzia e adolescenza in una famiglia dell’alta borghesia francese ipocrita e bigotta, descrive il suo percorso di donna alla ricerca della propria identità e alla conquista di se stessa. La sua perenne concentrazione nello studio la porterà a raggiungere risultati impensabili per una donna del suo tempo, non accettandone il ruolo di casalinga o di appendice dell’uomo. Nel suo racconto autobiografico assistiamo ad una messa in discussione di questo sistema sociale e culturale, e si intravede l’inizio di una cultura anticonformista che frantumerà il sistema borghese del ‘900. La lettura di questo memoire credo faccia venir voglia di trasferirsi a Parigi, per passeggiare con Simone per i suoi boulevards e cafè. Alla scoperta della città corrisponde la scoperta del sé, del proprio corpo e della propria interiorità intellettiva. Bellissimo è pure il racconto del legame con Zazà, interrotto dalla tragica morte della stessa, con la quale intreccia una specie di alleanza contro una società che vuole le donne sottomesse a rigide regole borghesi (matrimonio di convenienza, unico orizzonte l’essere mogli e madri).

Alla luce di quanto detto, credo che il libro di Simone de Beauvoir da me proposto, sia il manifesto della sua avventurosa esistenza di donna libera.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Da parte di tutte le Lettrici è stato sottolineato quanto questo libro, pubblicato nel 1958, sia stato un punto di riferimento per molte donne, una linea di passaggio personale e collettiva che ha dato consapevolezza e occasione di crescita umana e intellettuale. Ma alcune hanno sottolineato che, leggendolo oggi, dimostra i suoi anni, in particolare nello stile che è apparso ridondante ed eccessivo, pur rimanendo interessante in quanto opera di letteratura fortemente legata all’esperienza dell’esistenzialismo.
Durante la discussione sono stati citati altri libri di Simone de Beauvoir insieme ai tre che completano la sua autobiografia, oltre agli scritti dei suoi amici  J.P. Sartre, A. Camus e Nelson Algren.

Il pensiero Meridiano, di Franco Cassano

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16 febbraio 2021

di Roberta Ruggiero

Martedi 16 febbraio, il gruppo di lettura “Leggermente” dell ‘Adirt, sotto la sollecitazione di un articolo di Oscar Iarussi pubblicato il 2 febbraio sulla Gazzetta del Mezzogiorno, si è’ incontrato su Skype, per parlare del libro “Il pensiero meridiano” di Franco Cassano, pubblicato venticinque anni fa. Dopo averlo analizzato nei suoi saggi, abbiamo  ritenuto che la sollecitazione a vedere il sud in modo nuovo e a non mitizzare un certo modello di sviluppo, ci trova ancora concordi. Soprattutto perché l’Autore non offre ricette già confezionate, ma ci spinge, dandocene gli strumenti, a sperimentare nuovi percorsi in prima persona.

Franco Cassano, in questo libro, parla di noi e a noi, incrociando “sociologia, lirica e progetto politico”.

Ci sembra che il modo giusto per ricordarlo, ora che non c’ è più’, è leggere o rileggere i suoi libri.

Le transizioni, di Pajtim Statovci

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19 Gennaio 2021

Pajtim Statovci, “Transizioni”, Sellerio 2020

di Isa Bergamini

Il titolo italiano ricalca il titolo inglese “Crossing”, quello finlandese era “Il cuore di Tirana”. Transizioni in italiano vuol dire: il passaggio fisico da uno stato ad un altro, il passaggio da una meta ad un’altra, le oscillazioni dell’animo umano e il percorso medico e psicologico di chi passa da un sesso ad un altro. Un titolo dunque che condensa alcuni fra i temi principali del libro.

Leggendolo scopriamo una storia dolorosa in pagine lucidissime e inquietanti, piene della rabbia di Bujar (15 anni) che si sente tradito anche dal padre quando muore e lo lascia solo, e quella di Agim (16 anni) non amato dalla sua famiglia che non accetta la sua omosessualità.

E’ un libro che racconta un ritorno, forse e comunque un particolare ritorno, ma soprattutto è un libro sull’identità, o meglio sull’impossibilità di definire e di definirsi in una identità. Nelle primissime pagine infatti si legge ”… Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle.”.

Il tema certo non è nuovo e mi ha fatto pensare al mito e ad alcuni autori: nel mondo del mito classico, il dio Proteo che aveva il dono della profezia e che per sottrarsi alle domande di chi andava ad interrogarlo si trasformava in qualsiasi altra forma fisica; Ovidio “Le Metamorfosi”; F. Pessoa “Teoria dell’eteronimia”; J.L.Borges “Finzioni”; J. Joyce “Ulisse”; I. Calvino scrive – Il corpo significa! Grida! Contesta! Sovverte!- in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”; W. Nabokov “Il Dono” e “Invito ad una decapitazione”; J. Kafka; L. Pirandello “Uno, nessuno, centomila”; E. Carrer “Limonov”; W. Allen “Zelig”.

Molto interessanti sono le pagine di storia dell’Albania, da Skanderberg al Knun il Codice di Diritto consuetudinario albanese, che fa pensare a problematiche storiche e antropologiche del nostro Sud. Sono particolarmente coinvolgenti le pagine che raccontano gli anni dal regime di Hoxha fino al tempo dell’immigrazione in Italia e in Europa, tutto questo filtrato dalle storie umane e drammatiche dei due ragazzi Bujar e Agim. La condizione dell’emigrante è in più occasioni raccontata e denunciata con forza e rabbia.

Ha una funzione importante per la costruzione del libro, la presenza nelle sue pagine delle storie legate alla tradizione albanese, che nel loro polimorfismo la raccontano in profondità e ne costituiscono in un certo modo il peso delle tradizioni da cui Bujar è fuggito e a cui in fine ritorna. Infatti l’elemento fantastico delle storie torna nelle ultime pagine del libro, con il racconto del sogno di Bujar, che tornato a casa, dorme nella sua vecchia camera, privata di tutto, quasi il ritorno nell’utero buio delle sue origini, per una nuova rinascita? Un altro Bujar? Il finale è aperto e lascia anche aperta la discussione su molte intense pagine di questo libro.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Della lunga e interessante discussione cercherò di sintetizzare alcune delle molte cose importanti dette.
Questo giovane autore finlandese di origini kossovare è una forte voce nuova della letteratura internazionale, nelle sue pagine prende voce la rabbia di un popolo alla ricerca della sua identità, attraverso il racconto della storia dolorosa e inquietante di due giovani albanesi. Molte le problematiche che si affacciano in questo libro il cui titolo e la cui immagine di copertina sono stati particolarmente apprezzati, insieme alla qualità della traduzione.

In sintesi si è detto che “Le Transizioni” può dirsi un feroce romanzo di formazione e una metafora dell’uomo contemporaneo nel mondo della globalizzazione. La frammentazione del racconto è uno specchio della frammentazione di un mondo complesso e con una sapiente capacità narrativa, Statovci con lucido approccio storico, antropologico e culturale affronta la problematica dell’identità sia del singolo che di un’intera comunità.

In fine abbiamo chiesto a Vera un incontro dedicato al tema dell’identità. Lei, molto gentilmente, si è detta disponibile e ci incontreremo sempre su Skype martedì 26 gennaio alle ore 17,00.

Lucia ha poi raccontato quali sono state le letture che hanno accompagnato il viaggio Adirt in Albania nel 2009 e le ha inviate sulla chat di whatsapp. Le trascrivo insieme ad altre letture indicate da Roberta sempre su whatsapp, per chi volesse approfondire la conoscenza del mondo che si affaccia sull’altra sponda, per troppo tempo da noi ignorato o in passato considerato solo terra di conquista con l’occupazione nazi-fascista.

Libri indicati da Lucia:
“Vergine giurata” di Elvira Dones
“Chi ha riportato Dorutina” di Ismail Kadarè

Libri indicati da Roberta:
“”Aprile spezzato” di Kadare (su un passato regolato dal Kanun)
“Un uomo da nulla” di Kongoli (sull’Albania comunista)
“Guerra d’Albania” di Fusco (documento di una guerra dal ’40 al ’43)
“Dal tuo terrazzo vedo casa mia” di Malaj (racconti sui rapporti tra italiani e albanesi)

P. S. Vi invio in allegato due articoli su Pajtim Statovci, che ho trovato interessanti, entrambi scritti dal suo traduttore Nicola Rainò. Leggendoli, ho scoperto che Statovci, parlando dei suoi modelli letterari, indica Bulgakov, Toni Morrison, Isabel Allende e tra i finlandesi, parla di una ammirazione “immensa” per Olli Jalonen e soprattutto Sofi Oksanen. Qualcuna di noi ha letto questi autori finlandesi?

Articolo 1

http://Pajtim Statovci: scrittore tra Kosovo, Finlandia e Italia. Intervista su identità e nazionalismo. Di Nicola Rainò, da La Rondine – 19.2.2020

Scrittore finlandese, di origini kosovare, Pajtim Statovci si sta imponendo all’attenzione della critica internazionale. Ha pubblicato finora tre romanzi, e il secondo (Le transizioni) è in uscita in Italia nelle edizioni Sellerio. Dalla terra d’origine, il Kosovo, prendono le mosse personaggi giovani, animati da un forte senso di ribellione, privi di ideologie e in cerca di una loro via. Per qualcuno di loro, una via qualsiasi, purché lontano da quella “discarica d’Europa”. Passando da un paese all’altro, Bujar, il protagonista delle Transizioni, cambia continuamente identità, cambia genere, ruba l’identità altrui, è una creatura inquieta e proteiforme, smaniosamente in cerca di una sua collocazione, sempre difficile. Anche per il peso di un passato che non l’abbandona mai. I mostri della sua personale mitologia, apparentemente fantasie innocenti delle fiabe dell’infanzia, si incarnano in quelli ben più minacciosi della realtà. Non meraviglia che, parlando dei suoi modelli letterari, citi in primo luogo Bulgakov, Il maestro e Margherita, ma anche Toni Morrison e Isabel Allende, e tra i finlandesi, parli di una ammirazione “immensa” per Olli Jalonen e soprattutto Sofi Oksanen (cui lo legano, mi pare, anche aspetti strutturali dei suoi romanzi).

Gli abbiamo rivolto qualche domanda sulla sua idea di letteratura, sulle motivazioni che lo spingono a scrivere, sulle caratteristiche dei suoi personaggi, e sul rapporto tra vita e opere.

D. Le tue storie spesso toccano toni epici: alte montagne da scalare, mari aperti da attraversare, mete da raggiungere a rischio della vita. Traspare un fascino antico di leggende e miti. È così? Da dove ti viene questa ispirazione? R. “Io sono convinto che gran parte dei libri abbiano a che fare con la ricerca di pace e appartenenza, e la sopravvivenza, a volte anche a rischio di vita. Il mio background, essendo di etnia albanese, emigrato dal Kosovo in Finlandia all’età di due anni, ha avuto un impatto enorme sulla mia scrittura. La mia storia personale è il motivo per cui scrivo di pregiudizio, migrazione, diversità, poiché anch’io sono stato vittima del razzismo. I miti e le leggende albanesi erano molto presenti nella mia infanzia. Quando ero giovane, mi hanno raccontato storie che i miei genitori avevano ascoltato a loro volta da bambini. Queste storie celebravano la grandezza di una nazione, raccontavano una storia ricca di eroi potenti, di donne di inconcepibile compassione, divinità e creature simili a Dio. Era come se quelle storie cercassero disperatamente di rendere immortali i loro protagonisti, dare un ritratto di un territorio magnifico, e una descrizione di persone ugualmente magnifiche, quasi a fornire la migliore versione possibile di quel mondo a un pubblico che non aveva ancora familiarità con esso. Nelle mie Transizioni [titolo originario Tiranan sydän, “Il cuore di Tirana”], questi racconti popolari fondono e reggono il tema dell’identità, che non è mai statica ma in continua evoluzione. Come sempre con il folklore, chi racconta la storia spesso la modifica, come il mio protagonista. Cambiare paese, cambiare pelle, cambiare lingua e genere. Il mondo che metti in scena si trasforma costantemente. Non hai l’aria di un convinto nazionalista. È così. Reagisco e mi rapporto a storie che esplorano questioni di identità e nazionalità, e questo forse perché io stesso non ho un chiaro concetto di identità nazionale” D. Cosa significa essere finlandesi? O italiani? Quanto tempo si deve vivere in Finlandia per essere considerati finlandesi? Quanto devi conoscere una lingua affinché diventi una lingua madre? R. “Mi è stato chiesto della mia “finnicità” e della mia “albanesità” tante di quelle volte che ormai non lo so più e nemmeno mi interessa ad essere sincero se io sia considerato finlandese o albanese, e quale definizione o nazionalità mi attribuiscano i media, cosa dice il mio passaporto finlandese, perché il mio rapporto con la Finlandia e il Kosovo è e rimane quello di nessun’altra persona con il suo paese o i suoi paesi. Il modo in cui siamo collegati al nostro genere, alla nazionalità, al retroterra religioso, ecc. è sempre unico e distintivo. Le etichette (di etnia, sessualità, religione) sono sempre difficili perché le persone usano parole come “gay” o “rifugiato” o “cattolico” o “americano”, cercando di includere grandi masse. In un certo senso, è come cercare di spiegare o definire un’esistenza comune o un’esperienza generale, in una parola. Oltre che impossibile, è anche un po’ scorretto e ridicolo, perché arrogandoci il diritto di dire, ad esempio, – Questo è il mio amico gay -, stiamo invadendo lo spazio personale di qualcuno, sottraendogli il diritto alla sua storia personale, alla esperienza della sua sessualità, alla sua libertà di esistere. Nazionalità, genere, sessualità sono questioni così complesse e astratte che nemmeno gli specialisti riescono a comprenderle appieno”. D. Nei tuoi libri il passato e il presente dell’Albania e del Kosovo non mancano mai. Non credi che la vita di questi territori sia ancora ignota al resto dell’Europa? R. “Penso che, nel complesso, la vita in questi paesi non è stata sufficientemente rappresentata in campo artistico, questo è certo. Ma ci tengo a sottolineare che con il mio lavoro non sto cercando di “colmare un vuoto” o “rappresentare” nessuno. Il mio unico intento è di scrivere su ciò che sento vicino, su ciò che mi interessa e attrae. Al giorno d’oggi, gli scrittori si trovano ad affrontare questioni tali per cui si chiedono se abbiano il diritto di raccontare, dal momento che le storie raccontate hanno un’eco diffusa, una risonanza che a volte va al di là dell’invenzione letteraria. Sono soprattutto gli scrittori che non vengono dal mondo occidentale e scrivono dei luoghi di provenienza a condividere questa preoccupazione, almeno nella mia esperienza; come vengono lette le loro opere di narrativa, quanto il pubblico sia portato a generalizzare su un dato paese, su una cultura, a partire dal testo prodotto. Anch’io sento di essere diventato una specie di portavoce degli “immigrati albanesi” quando ho pubblicato il mio primo libro. Le riviste hanno scritto articoli su di me e sul mio romanzo con titoli come: “Vivere la Finlandia attraverso gli occhi di un immigrato”, “Ecco cosa significa essere straniero in Finlandia”, “Per un immigrato la Finlandia è fredda e razzista”. Una volta mi è stato persino consigliato di non scrivere sulla guerra in Kosovo perché la mia famiglia era fuggita dal mio paese d’origine e io non l’avevo sperimentata di persona. Inutile dire che, anche se non ero in Kosovo durante la guerra, ciò non significa che non abbia influenzato la mia esistenza. E come se lo ha fatto. Per quanto ne so, in maniera drammatica. Nel corso della mia breve carriera di scrittore, diversi giornalisti mi hanno posto domande su migrazione, razzismo, nazionalità e situazione in Medio Oriente. Ascoltare queste domande è piuttosto frustrante, perché so che mi vengono poste solo per via del mio background, perché una volta ero un profugo anch’io. E ciò mi rattrista molto, perché essere uno straniero non ti rende un esperto di culture e migrazioni. Non lo fa scrivere una storia su una famiglia albanese che chiede asilo in Finlandia. Tutto ciò è conseguenza dello stesso problema, fondamentalmente, di come uno scrittore venga visto come rappresentante del mondo in cui ha ambientato le sue storie. Per me, la creazione letteraria è uno scenario in cui ambientare una questione che mi preoccupa, mi pesa, e mi frustra. Non racconto una storia per spiegare niente a nessuno, per fornire al mio pubblico una chiave di lettura. Quello che posso dare è una storia, una storia in mezzo a milioni e milioni di altre storie, e i miei personaggi sono personaggi miei, le loro storie sono storie scritte da me senza eccezioni, e queste persone, e le loro origini, hanno diritto a questo punto di vista”. D. La nave “Vlora” al molo di levante di Bari, 8 agosto 1991 L’Italia è molto presente nei tuoi romanzi. Per alcuni dei tuoi personaggi è una meta da raggiungere, la salvezza, ma è anche un posto ambiguo, a volte pieno di minacce. Qual è la tua idea oggi dell’Italia, ancora un posto da sognare, oppure te ne sei fatto un’immagine più realistica? R. “Per i due adolescenti albanesi delle Transizioni, i ragazzi che lasciano tutto, la loro casa e la famiglia, inseguendo il sogno di una vita migliore, l’Italia rappresenta il nuovo inizio che si auspicano in un paese occidentale. Una delle frasi più significative del libro, secondo me, è questa: “L’Europa era la nostra America”. Quindi  due ragazzi si sono innamorati di questa idea, spesso molto falsa, che la vita in un paese occidentale sia automaticamente migliore della vita al di fuori dell’Occidente. Il desiderio di “scappare” / “raggiungere l’Occidente” è ancora molto comune nel mondo di oggi. Racconti di migrazioni drammatiche dai Balcani. Dall’inizio del decennio 1990 l’Italia è stata raggiunta da profughi albanesi e kosovari in grande numero” D. Ma non abbiamo scrittori italiani che abbiano scritto pagine memorabilia su questa tragedia decennale. Come ti spieghi questa distrazione? R. “Confesso che la cosa mi sorprende, poiché, come dici tu, si tratta di una storia tragica e di lungo periodo che ha avuto conseguenze immense sui destini di tanta gente. Anche perché si tratta di eventi accaduti al confine con l’Italia, e sono parte integrante della sua storia moderna… ” D. Nei tuoi testi c’è una grande presenza di simboli, anche se dopo il primo romanzo si nota una certa rarefazione. Si tratta di una scelta consapevole o di una evoluzione naturale del tuo stile? R. “Non so se ci sia una diminuzione dei rimandi simbolici, oppure se oggi sto utilizzando il simbolismo animale in maniera diversa rispetto agli esordi. L’ispirazione mi è venuta da un ambito di ricerca detto degli “Studi animalisti” che ho conosciuto studiando letterature comparate all’Università di Helsinki (e che è oggi il tema del mio dottorato di ricerca). Questo filone di ricerche indaga in che modo gli animali siano “alienati” dagli umani. Noi collochiamo gli animali in contesti alieni, come le opere letterarie, dove vengono interpretati attraverso l’occhio umano, ad esempio come simboli di esseri umani o di caratteristiche umane. Lo facciamo ripetutamente, anche se non abbiamo idea di cosa sia essere un animale. Questa è la differenza tra “animal others” e altri “reietti culturali” della società. Poiché gli animali non possono difendersi allo stesso modo degli altri “diversi” (come le minoranze etniche o religiose) o condividere un comune sistema di comunicazione, l’atto di “rubare una voce” è molto più complesso e molto più immorale. Leggere gli animali come nostri simboli è un modo per sminuirli, e viola il loro diritto di rappresentare se stessi, il loro diritto a non essere interpretati rappresentanti della loro specie. Volevo giocare con questa teoria nel mio primo romanzo [Kissani Jugoslavia, nell’edizione italiana “L’ultimo parallelo dell’anima”, ma il titolo originario significa “Il mio gatto Jugoslavia”] usando gatti e serpenti perché così volevo dire che non tutti sono in grado di difendersi o abbastanza forti da ribellarsi alla violenza, non tutti quelli che sono in grado di parlare riescono a farsi sentire. Diversi paesi esaltano la loro potenza scegliendo di essere rappresentati da animali in cima alla catena alimentare – aquile, leoni, bisonti, tigri e cavalli. A un certo punto del libro il protagonista Bekim dice: “Perché una cosa è dire di essere svedese o tedesco o inglese, altra cosa è dichiararsi turco o iraniano. La patria d’origine di una persona, tranne in pochi rari casi, non è una questione banale.” Il gatto nel mio romanzo Kissani Jugoslavia interpreta diversi ruoli. Il suo mutare d’aspetto e la sua natura contraddittoria, spero, danno spazio a diverse interpretazioni e consentono approcci diversi. Il gatto parlante è anche ciò che spinge Bekim a crescere. Inizialmente Bekim lascia che il gatto gli stia accanto anche se è molto irrispettoso e offensivo nei confronti delle persone che lo circondano. Il gatto può dire e fare tutto ciò che vuole, commettere abusi e insultarlo come gli pare. Il gatto occupa il suo appartamento e lo aggredisce, e Bekim gli permette di farlo perché ha una forma di razzismo interiorizzato e pensa di meritarselo. O forse questo accade perché Bekim sente che quell’attrazione, l’amore occasionale e il calore che riceve dal gatto significhino anche altro perché lui, un immigrato e un gay, rappresenta tutto ciò che il gatto odia. Forse Bekim pensa che l’amore di qualcuno come il gatto sia un tipo di amore diverso, più forte di qualsiasi altro amore e più potente perché questo amore ha attraversato confini e barriere. Forse pensa che se riesce a convincere uno del genere a concedergli amore e accoglienza, allora starà bene. Forse ha bisogno di sentire che è possibile, per le persone che pensano in modo simile al gatto, vederlo come qualcosa di più di un profugo o un gay, e innamorarsi di lui. Tuttavia, anche se il gatto vuole essere percepito come detentore del potere, inizia presto a ingrassare e per di più a soffrire di depressione. Improvvisamente, dopo aver miseramente fallito nella vita, il gatto non vuole più uscire di casa perché pensa di avere un aspetto orribile e sgradevole, teme che la gente noti i suoi artigli lunghi e sporchi e il suo pelo unto. Inanella una serie di fallimenti, finché finisce per diventare chiaro il perché dei suoi comportamenti stravaganti: anche lui è un “diverso” e si sente escluso, alla fine è un animale che vive in un mondo di umani. Lui stesso discrimina perché ha paura di essere vittima di ciò che colpevolmente fa. Immagino che per le persone come il gatto sia più facile combattere le insicurezze e le pene dell’autodenigrazione costringendo le persone amate a provare le stesse sensazioni. Spero di non essermi dilungato troppo. In sostanza, volevo continuare a usare simboli animali sia in Le transizioni che in Bolla, ma in maniera più sottile. Tutti i racconti popolari di Le transizioni, ad esempio, hanno un tema in comune: l’onore. Durante la loro educazione, i due ragazzi protagonisti – Bujar e Agim – ascoltano in continuazione storie di conquiste, di albanesi vittoriosi e trionfanti, mentre poi la realtà, con la caduta del comunismo, la povertà, la lotta quotidiana, è così lontana da ciò che le storie raccontavano che porta a una crisi dei protagonisti con la propria identità nazionale, seguita da un rifiuto totale di quella nazionalità perché ne provano vergogna, perché iniziano a soffrire di razzismo interiorizzato e odio per se stessi. Sono stati feriti in così tanti modi, che pensano che la cosa più saggia da fare sia creare storie alternative che li aiutino ad arrivare dove vogliono. Col senno di poi, pare che lo scenario costruito in Albania e Kosovo nelle Transizioni costituisca una sorta di prova generale per l’ultimo romanzo” D. Bolla. Da dove ti è venuta l’ispirazione per quest’ultima opera? Che ricerche hai fatto? R. “Preparo la mia narrazione leggendo (narrativa e saggistica), facendo interviste, chiedendo in giro e viaggiando – niente di speciale. Ho lavorato al mio ultimo romanzo Bolla per oltre 8 anni, ma anche se ho scritto i miei tre libri in qualche misura contemporaneamente, ciascuno di loro è stato un progetto indipendente, molto diverso l’uno dall’altro. L’idea di Bolla mi è venuta in mente per la prima volta quando stavo scrivendo Kissani Jugoslavia, e mi sono ispirato al personaggio del padre, Bajram. Volevo esplorare una mente complessa e contraddittoria: un uomo le cui azioni – la violenza nei confronti di moglie e figli – sono molto difficili da capire e da accettare, facili da considerare “malvagie”. Ma non credo che nessuno nasca malvagio. Le cose di rado sono semplicemente in bianco e nero. A volte le persone scivolano nel male, senza volerlo, per qualche accidente. Volevo mettermi alla prova scrivendo di un personaggio come questo: qualcuno intrappolato, chiuso, traumatizzato e coatto, e in un modo che non conduce necessariamente all’espiazione, o come dici tu, alla salvezza. Volevo scrivere della violenza direttamente, e senza alibi, perché la quantità di violenza nel mondo non si riduce ignorando quanta violenza ci sia. Inoltre, tutti conosciamo persone come Arsim – persone che sono così incapaci di esprimersi, che sono così distaccate dalle loro emozioni, che finiscono per ferire le persone intorno a loro. In generale, il mio bisogno di capire le persone è sempre stato più grande del mio bisogno di giudicarle. Penso che sia per questo che sono uno scrittore, per questo ho scritto Bolla, anche se è stato il libro più difficile da scrivere” D. Quali sono le tue abitudini di scrittore? Ti fai un piano prima di cominciare? Ti prefiggi un limite di pagine /ore ogni giorno? E quanto riscrivi in genere? Dove lavori di solito? R. “Scrivo solo quando ho voglia di farlo, quando sono ispirato, quando penso di avere qualcosa da dire. Non mi costringo mai a scrivere alcunché. Ci ho provato, a fare programmi giornalieri, fissare obiettivi, ma il risultato è qualcosa che non vale la pena di rileggere. Amo scrivere, mi dà pace e felicità e non vorrei mai sentirlo come una costrizione. È il mio mondo libero, dove posso sentirmi fiero e coraggioso, dove non ho paura di dire ciò che voglio dire sulla gente, il mondo, la politica, l’umanità. Faccio dei piani, ma spesso non mi attengo a questi piani. Direi che sono uno scrittore piuttosto caotico, tuttavia, in questo mio caos ci sono struttura e ordine, dato che in genere scrivo negli stessi ambienti: a casa, così come in alcuni caffè e biblioteche di Helsinki. Scrivo principalmente la sera e di notte. C’è questa tranquillità, questa solitudine, che mi affascina. Essere completamente solo, sveglio a tarda notte, per qualche motivo mi dà modo di pensare, e ispirazione. Inoltre, durante la notte tutti dormono, quindi non devi preoccuparti di rispondere a e-mail o telefonate”. D. Che esperienze hai avuto col razzismo in Finlandia? Hai notato cambiamenti nel tempo? Hai mai avuto la sensazione che il tuo nome, diverso da un normale Matti Virtanen, abbia costituito un impedimento, creandoti problemi nonostante tu sia cresciuto in Finlandia? Oppure è stato un vantaggio, un marchio esotico, che ti è stato d’aiuto?  R. “Mentre io crescevo, dopo che ci siamo stabiliti in Finlandia, la situazione in Kosovo è andata solo peggiorando, e molto presto bombardamenti, movimenti di truppe e omicidi erano le notizie di tutti i giorni. All’età di sette anni ho iniziato a frequentare una scuola finlandese e anche se non avevo ricordi della vita in Kosovo e ancor meno consapevolezza di ciò che stava accadendo lì, per i miei coetanei a scuola io ero la faccia della mia cultura. I media insistevano col racconto di storie di albanesi oppressi, scrivendo di violenza e rivolte costanti, di persone costrette a lasciare le loro case, che avevano perso la famiglia, restando prive di ogni mezzo. Mi sono trovato a far fronte a domande su un mondo in balia di crudeltà e isteria. Con mia sorpresa, queste domande non mi rattristavano. Né mi hanno fatto arrabbiare. Invece mi hanno fatto provare vergogna, facendomi sentire la necessità di desiderare un’altra nazionalità. Ricordo persino di aver chiesto a mia madre: Perché non ce la fanno a essere normali, come tutti noi? Piccolo com’ero, sentivo che queste notizie mi deprimevano, facevano sì che altre persone mi associassero alla guerra, facendomi vergognare di quella guerra, anche se io non c’entravo niente. La mente di un bambino è fragile, così ho iniziato a vergognarmi del mio passato. Dopo un po’ ho anche iniziato a evitare conversazioni che riguardavano la mia lingua, la nazionalità e la cultura, e alla fine, capito quanto mi sentissi a disagio quando il mio paese d’origine veniva evocato, ho smesso del tutto di parlare la lingua albanese, fingendo che di botto l’avevo dimenticata. La mia lingua madre era diventata un segreto umiliante. Non era più una forza, un di più delle mie competenze linguistiche, ma una prova del fatto che ero diverso dagli altri. Questo è il motivo per cui odiavo che mi chiedessero di parlare albanese a scuola. Crescendo, ho imparato che certe lingue sono più utili di altre, e ho imparato che i miei colleghi svedesi non erano immigrati. Ho capito che erano fratelli e sorelle che vivevano nella società finlandese, erano membri del “mondo civilizzato”. Laddove io, un albanese etnico, ero un membro di un altro mondo, un richiedente asilo, un profugo di guerra. Il mio paese d’origine non era noto per la produzione di auto veloci, telefoni cellulari o componenti di aeroplani, e quando dicevo a qualcuno da dove venivo, invece che di interesse, ero spesso oggetto di pietà. Non mi sono reso conto che stavo soffrendo di razzismo interiorizzato fino a quando ho iniziato a lavorare al mio primo romanzo. Mentre facevo le mie ricerche, leggendo di barbari atti di violenza, guardando immagini di cadaveri in fosse comuni, uomini ammazzati e lasciati decomporre sul ciglio della strada, provai vergogna per me stesso, ancora una volta, ma adesso in modo diverso. Mi sono reso conto che era questo, e solo questo, queste storie e queste immagini, che mi avevano relegato nella negazione e nella vergogna. Queste immagini e queste storie associavano regolarmente criminalità, violenza e morte con il luogo delle mie origini. Instillandomi il bisogno di nasconderlo, di provare vergogna, anche per la mia lingua madre, facendomi credere che, essendo un rappresentante di una certa nazionalità, ero in qualche modo responsabile della sua storia. Ora, non sono sicuro di come vadano le cose in Italia perché non conosco l’italiano, ma è molto allarmante ciò che sta succedendo oggi. Come quando si usano certe parole, quando si parla di costruire muri in modo che certe persone di certi paesi vengano tenute lontane. Ad esempio, nell’autunno del 2015 i media finlandesi hanno parlato molto della gente in fuga dalla Siria. I media hanno usato frasi come “un diluvio di profughi”. Alcune metafore, associate a disastri e catastrofi naturali, vengono utilizzate – quasi scelte con cura – per intonarsi al modo in cui (evidentemente) si è autorizzati a parlare di rappresentanti di determinate religioni e culture, delle loro tragedie e dei luoghi da cui potrebbero venire. È il caso di chiedersi, se accadesse qualcosa di così tragico (come la guerra) in un paese occidentale, diciamo la Svezia, per esempio, in quel caso i media descriverebbero le persone che fuggono dal loro paese in toni simili? In Le transizioni, diverse pagine raccontano come questo tipo di discorso influenza un individuo. Là dove è descritto il clima politico nei primi anni ’90, come cambiarono gli atteggiamenti degli italiani nei confronti degli albanesi immigrati. Mi sono sentito molto attratto da questi eventi anche se erano un po’ lontani da me, perché mi ci sentivo legato in tanti modi. Quanto al sentimento di vergogna per il mio passato, poi … mi rattrista dire che condivido l’emozione con molti come me. È anche il punto di partenza di Le transizioni. I due ragazzi del libro, soffrendo dello stesso tipo di vergogna, passano tutta la vita cercando di liberarsene. Uno di loro lo fa rendendosi disponibile a fare qualsiasi cosa per non esserne vittima, fino a “perdere la faccia”, mentire su ogni dettaglio del suo passato, persino rubare la vita, le speranze e i sogni degli altri”. D.Hai già raggiunto notevoli risultati ad un’età così giovanile. Vincere il Premio Finlandia per la letteratura ti ha messo sotto pressione, ha cambiato i tuoi progetti? Cosa vedi davanti a te?. R.Questo riconoscimento vale tutto per me. Ne sono così onorato e commosso, ne terrò conto per il resto della mia vita. Per il futuro spero di sentirmi ispirato a scrivere, proprio come lo sono stato fino ad ora. Il mio quarto libro, se e quando comincerò a scriverlo, avrà ben poco a che vedere con i miei lavori precedenti. Sarà un mondo a parte. Saperlo, mi permette di non sentire troppa pressione. Penso comunque che potrei esplorare modi di raccontare storie in altri modi, altri generi e scenari, come scrivere per le scene. Ma non lo so, il futuro è sempre un punto interrogativo”.

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Articolo 2

Le Transizioni” del giovane Pajtim. Un grande romanzo finlandese sull’incerta identità dell’Europa. Di Nicola Rainò 14.02.2020

Pajtim Statovci è il narratore emergente nel panorama della letteratura finlandese contemporanea. Ha da poco pubblicato il suo terzo romanzo, Bolla, che gli è valso il Premio Finlandia per la letteratura del 2019, il più giovane a ricevere questo riconoscimento. Nato in Kosovo nel 1990, è cresciuto in Finlandia dove si è trasferito con la famiglia fuggita dalla guerra quando aveva due anni. Leggendo i romanzi di Statovci viene un nodo in gola. Viene da domandare, a noi stessi e non solo: ci ricordiamo degli anni ’90, appena trent’anni fa, quando le coste della Puglia vennero “invase” da migliaia e migliaia di carrozzoni del mare sgangherati, e si trattava prevalentemente di albanesi, tutti “profughi economici”, tutti “clandestini” dichiarati? Non c’erano Ong, all’epoca, ad accompagnarli nei porti. Arrivavano a grappoli sui ponti e le torrette di vascelli fantasma e si lanciavano in mare appena avvistata la costa. Una euforia di naufragi che vide gli italiani, in particolare la gente di Bari, Brindisi e Otranto, offrire un aiuto a tanti disperati che avevano negli occhi fame, di tante cose. Le storie di Pajtim Statovci partono sempre da quella terra dilaniata, il Kosovo delle sue origini, dandone un ritratto mai univoco: accanto all’indigenza estrema dei paesini dell’interno, l’avidità dei nuovi ricchi, di nuovi predoni, italiani compresi, e la voglia di tanti di lasciare un mondo in rovina, con due stracci addosso, affrontando rischi di ogni genere: il mare, i trafficanti. Sullo sfondo, storie e leggende animano gli incubi di questi uomini, riaffiorano animali mitologici dalle memorie dell’infanzia, per poi ricomparire, in forme più spaventose, anche nelle nuove patrie provvisorie, le patrie di transito. Cosa c’era dietro quegli occhi, nell’animo di un ragazzo, pronto a lanciarsi in mare senza nessuna certezza? Nei romanzi di Statovci troviamo anche questo, la definizione transitoria di un’identità difficile, forse le ragioni di quella unità europea così difficile, ma non solo per egoismo politico. Il fatto è che l’Europa si lascia alle spalle tanti vuoti, con altrettante rimozioni: come quella degli scrittori italiani contemporanei. Non mi viene in mente un solo “grande” romanzo nell’Italia dei nostri tempi che abbia avuto il coraggio di affrontare adeguatamente le tragedie di questi decenni, dall’Albania alla Libia. Di fronte a una odissea di queste dimensioni, li vediamo affollare i talk show televisivi, dicendone di ogni genere: ma perché un tema così vicino a noi italiani, di gente con cui abbiamo una faccia e una razza, non riesce a trovare una voce? Ecco, Pajtim Statovci è (anche) questa voce, e dall’interno del fenomeno ci racconta faccende sporche e inquietanti che forse ci imbarazzano, o troviamo sgradevoli. Certo non fanno salotto. Ha scritto di questo romanzo il Guardian: «Questa è l’opera di un romanziere già maturo, in una tradizione che va da Camus a Kafka, da Kadare a Kristeva. Di una bellezza brutale.»

Le Transizioni  (titolo originario Tiranan sydän, “il cuore di Tirana”) è il racconto di un giovane europeo del nostro tempo: non ha certezze, è privo di ideologie, è una persona in cerca di definizione.  Non ha certezze nemmeno riguardo al suo genere. Bujar dice: «sono un ragazzo di ventidue anni, che a volte si comporta come immagina facciano gli uomini », ma può essere una giovane di Sarajevo corteggiata da uomini di ogni età. Il giovane inventa continuamente se stesso e la propria storia, ruba il passato e l’identità delle persone che ha amato, e così si racconta a un amico o a una sconosciuta, nel resoconto di una vita trascorsa in viaggio e in fuga, dall’Albania all’America, passando per Roma, Madrid, Berlino, Helsinki. Perché, come dice lui stesso, «nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle».
A partire dall’adolescenza poverissima a Tirana, «la discarica d’Europa, il fanalino di coda dell’Europa, la prigione a cielo aperto più grande d’Europa», Bujar narra la sua storia in prima persona. I genitori, la sorella, l’amicizia con Agim, coetaneo e vicino di casa, rifiutato dalla famiglia per il suo orientamento sessuale. Entrambi fuori luogo in un paese devastato, sempre più dipendenti l’uno dall’altro, decidono di lanciarsi verso un futuro che gli appartenga.

Impalcature. Il romanzo del ritorno, di Mario Benedetti

Attività 2020-2021, Commenti e riflessioni Nessun Commento »

16 dicembre 2020

Mario Benedetti,Impalcature. Il romanzo del ritorno”.Nottetempo, 2019

di Monica Mc Britton

Quest’anno, 2020, si commemora il centenario della nascita di Mario Orlando Hamlet Hardy Brenno Benedetti Farugia, noto come Mario Benedetti.

Se il “nome della rosa” dice qualcosa sull’essenza delle rosa, i nomi dati allo scrittore uruguaiano dai suoi genitori, preannunciano la sua vocazione di poeta, saggista, scrittore e drammaturgo.

In effetti, autore di una vasta opera letteraria, una parte accessibile in italiano, Mario Benedetti è uno dei più importanti intellettuali del ‘900 non solo in Uruguay ma in tutta l’America Latina.

È stato anche un cittadino impegnato nelle lotte politiche per una maggiore giustizia sociale nel suo Paese. Ha conosciuto l’esilio durante la dittatura militare fra il 1973 e il 1985.

Ha lasciato per testamento risorse per la costituzione di una Fondazione, la quale porta il suo nome, il cui scopo è la promozione della letteratura e dei diritti umani con particolare riguardo al rintracciamento dei prigionieri politici scomparsi.

Il sito della fondazione è:

fundacionmariobenedetti.uy

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura.

Molti sono stati gli aspetti di questo bel libro evidenziati nei vari interventi, in particolare si è detto del buon ritmo della narrazione e di come l’autore uruguaiano ne padroneggi sapientemente la struttura.

Benedetti magistralmente non affonda lo sguardo nei terribili particolari delle persecuzioni politiche in America Latina, ma racconta la storia privata difficile e dolorosa di una generazione travolta, soppressa e cancellata nel silenzio a cui è stata piegata. Non è stato considerato un romanzo politico, ma un romanzo di vita con diversi problemi irrisolti e evidenziati senza drammatizzazioni ma sommessamente con molti interrogativi che coinvolgono il lettore. L’angoscia e la paura di un’età del terrore, restano come unico segno di tante speranze soffocate, che vivono come sospese nella moderna città di Montevideo, descritta amabilmente in alcune belle pagine.

Sono state ricordate in particolare le figure femminili di questo libro, la bella e dolente figura di Rocìo, la madre Nieves, la moglie e la figlia, tutte donne amate da Javier, il mite protagonista che di capitolo in capitolo procede al restauro delle “Impalcature”, sulle cui tracce il lettore con passione lo segue.

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di Roberta Ruggieri

Ogni realtà individuale e collettiva in perenne costruzione ha bisogno di impalcature per esistere, queste sono fatte di persone, di riflessioni, di  emozioni.
Voce dell’America Latina, Benedetti intreccia poeticamente la sua storia personale con quella del suo paese, toccando vari temi: la patria, la sinistra, gli affetti.
Particolarmente felici sono i ritratti delle donne, disegnate con  vera partecipazione.

Scherzetto, di Domenico Starnone

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17 novembre 2020

Domenico Starnone, “Scherzetto”, Einaudi, 2016

 di  Vera Meneghello

“Scherzetto” è un libro interessante sia per motivi stilistici sia per contenuto. E’ un libro veloce ma denso, tre giorni raccontati in 176 pagine. E’ un romanzo stratificato che, sotto una agile e piacevole lettura di una originalissima competizione generazionale, offre profondi spunti di riflessione. Riflessioni sull’umanità alle prese con il graduale ma inesorabile sgretolarsi delle proprie certezze e con la perdita di identità, sulla complessità delle dinamiche familiari, infine sull’arte ponendoci degli interrogativi sulla natura del talento, se innato o acquisito. L’autore sostiene che il talento, anche se riconosciuto e coronato dal successo,  ha bisogno dell’arte cioè dell’esercizio per mantenerlo vivo e che per la maturazione del proprio talento è necessaria la conoscenza delle proprie fragilità. Il bello del libro è proprio questo: le fragilità ci dicono come è fatto il mondo. A tale proposito, non a caso, in sopracoperta del volume è riprodotto un olio di Dario Miglionico, pittore napoletano contemporaneo, che è parte di una serie di dipinti dal titolo “Reificazioni”, titolo questo di  un concetto filosofico della dottrina di Karl Marx che rimanda al processo mentale attraverso cui  si converte in un oggetto concreto e materiale il contenuto di un’esperienza astratta. Qui si allude alla trasformazione del linguaggio pittorico nella società contemporanea dove assistiamo a una drammatica frammentazione dell’io, dove si perde l’unitarietà della persona e del suo pensiero, quindi dell’identità e della sua dimensione psichica. E’ il motivo per cui Maglionico nelle sue tele rappresenta le persone  metaforicamente come  figure fisicamente incomplete, dominate da un senso di straniamento, con sguardi indefiniti, con parti mancanti o lineamenti sfocati o al contrario con arti sovrabbondanti.

Starnone, con la sua prosa lineare ma profonda si concentra sul tema della vecchiaia e sul confronto tra questa e l’infanzia, come forse nessun altro autore è riuscito a fare in modo cosi inconsueto. L’abilità di Starnone consiste nell’identificare le difficoltà proprie ed altrui cogliendole in situazioni banali e quotidiane, quelle che spesso sfuggono alla nostra  coscienza, di cui non ci rendiamo conto e che tendiamo a giustificare e spesso ad assolvere.

Racconto tagliente, tesissimo, senza sentimentalismi, amaro, malinconico, un perfido e al contempo divertente scontro  tra un nonno stanco, egoista, distratto e un piccolo nipote vitalissimo, molto intelligente  ma anche saccente petulante  e sapientone. Nella partita che si gioca tra loro, attraverso l’ espediente del rapporto nonno- nipote dove potrebbe esserci  un tenero e commosso passaggio di consegne fra due generazioni, si racconta invece la durezza dei legami familiari nello scontro tra due mondi: uno che sta finendo e quello che sta nascendo. La storia è ingannevolmente semplice da raccontare come sono spesso le cose più complicate della vita. Starnone ci  racconta la storia di un uomo anziano, disegnatore di grande talento e fama ma al canto del cigno cioè sul finale di una pregevole carriera  che non accetta la sua età e, con essa, neanche l’idea di non essere più il grande artista che è stato. Viene costretto dalla figlia, professoressa universitaria di matematica, a ritornare a Napoli, città natale da cui era partito tanti anni prima, per badare al nipotino Mario di 4 anni, quasi sconosciuto per lui, mentre lei e il marito, anche lui professore universitario, sono ad un convegno. In questi tre giorni si crea un duello impari tra il nonno ultrasettantenne e il nipote tendente ad un processo di adultizzazione precoce, come avviene spesso per i figli unici stimolati ed esaltati eccessivamente dai genitori. Il confronto con il piccolo, adorabile e contemporaneamente sgradevole, giudizioso ma cocciuto, manipolatore raffinato, gioca al nonno un brutto scherzo: fare i conti con se stesso, con il suo passato, con la vecchiaia incombente, con un inaridimento, finora da lui disconosciuto, del suo estro creativo. Il confronto tra i due protagonisti è piuttosto bellicoso, sono due personalità fortemente narcisistiche, separate da circa settanta anni e dalla incomunicabilità di due mondi diversi e reciprocamente a loro  sconosciuti. La presenza e le azioni del bambino inducono il nonno ad intraprendere il difficile percorso della consapevolezza: incontrare il fantasma di ciò che poteva essere e non è stato.

E’ molto suggestivo, a questo punto, notare l’analogia che l’autore fa tra il protagonista di “Scherzetto” e quello del citato racconto breve “The jolly corner” di Henry James, di cui deve produrre alcune tavole pittoriche commissionategli da un famoso editore prima della sua partenza per Napoli. Entrambi ritornano dopo molti anni nella città natia e si trovano a riflettere sulle scelte mancate e a come sarebbero diventati se fossero rimasti dove erano cresciuti. Ma mentre nel personaggio di James del racconto la revisione della sua vita viene sollecitata dalla presenza di un fantasma, che poi non è altro che il suo alter-ego, nel nonno dello “Scherzetto” lo stimolo alla revisione si nasconde nella impertinente spontaneità del nipotino che consegna al nonno il suo ritratto più vero. E’ il riesame di una intera esistenza sollecitato da una sorta di competizione con il nipotino che dimostra di avere un innato talento per il disegno.   Infatti sarà proprio  un disegno fatto dal  bambino per gioco, inconsapevolmente ricco di talento, che squarcerà, nella percezione del nonno, la esaltante pienezza di anni di lodi e successi, un equilibrio costruito con fatica, che viene lacerato, dilaniato all’improvviso dalle continue performance del bambino che dimostra di sapere fare tante più cose di lui,  lasciando così spazio a dolorosi interrogativi. La vanità del nonno, ingombra del proprio io, viene smontata dalla spontaneità talentuosa del bambino. Il nonno ha vissuto la propria esistenza sentendosi unico ed eccezionale, mentre ora ogni certezza sembra miseramente lacerarsi. Il nipotino Mario (uno dei ritratti infantili più riusciti e maliziosi della nostra narrativa recente) che crede di sapere fare tutto riporterà infatti alla memoria del nonno un se stesso bambino costringendolo involontariamente a confrontarsi con i fantasmi del passato, con i ricordi familiari, con i mille volti possibili e abbandonati del se adolescente, con tutte le opportunità bruciate nella scarsa consapevolezza delle proprie scelte, con la paura che la rabbia della sua infanzia non si dissiperà mai. Ma il centro del disagio interiore del nonno rimane il bambino: è l’evidenza della non unicità, è  la rappresentazione concreta del ricambio generazionale, del nuovo che irrompe nella sua vita percepito dall’anziano come una minaccia e una intollerabile sostituzione del se. C’è la rabbia del diventare vecchi davanti all’infanzia che esplode, che ha tutto il futuro davanti dove può esprimere tutte le sue potenzialità. A lui tutto ciò è precluso, non ha futuro, rimane lo smarrimento di fronte alla vita dentro e dopo di lui in un groviglio di inquiete emozioni di un adulto che non ha trovato ancora se stesso. Infatti, anche nell’appendice finale del libro, una specie di raccolta di appunti, schizzi ed illustrazioni che funge da corredo quasi critico alla storia, lo scrittore vuole sottolineare la differenza tra la realtà e la fantasia.

Il finale felice che si potrebbe dedurre dalla conclusione della storia narrata, appartiene ai libri. La realtà,  invece, appartiene agli uomini ossia : la vita è un’altra cosa. Tanto da concludere con la inquietante ultima frase: ”non so, stamattina, se ho paura per il bambino o ho paura del bambino”

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Se ne è parlato quasi come se protagonisti non fossero solo il nonno Daniele e il nipotino Mario, ma anche i tanti temi che sono stati evidenziati durante la discussione, dal conflitto generazionale, alla durezza dei legami familiari, al peso e alla degenerazione della vecchiaia che sembra piombare sul nonno, scatenando un momento di autocoscienza determinato dall’incontro con il nipotino che è elemento catalizzante di questa storia disperata, amara, quasi tagliente con assoluta assenza di sentimentalismi. Tutti temi complessi che l’autore affronta con un’apparente semplicità del testo. Si è sottolineata la presenza sullo sfondo di Napoli e dei suoi suoni ed è stato evidenziato in particolare il tema della natura del talento nell’arte.

Quasi tutte hanno molto apprezzato oltre ai temi affrontati anche lo stile della scrittura di Starnone, con qualche voce di dissenso che ha evidenziato come le sue pagine risentano sia della presenza di un modello di scrittura a cui adeguarsi, sia di un disegno per predisporsi ad eventuali riduzioni per il cinema o la televisione.

In definitiva il libro è molto piaciuto ma c’è stata anche voce di più o meno pesante dissenso che ha parlato di libro noioso, con molti luoghi comuni che si ripetono, rendendo il testo quasi monocorde.

Sono stati citati i racconti “L’angolo felice” di Henry James e “Il bambino tiranno” di Dino Buzzati sottolineandone analogie e differenze.

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di Roberta Ruggieri

Una partita a due giocata su più tavoli.
Domenico Starnone si conferma narratore capace che intreccia realismo, riflessioni, introspezione e ironia.
Sullo sfondo Napoli, il giusto contesto  del racconto.
Che lo scrittore ci viva o no; che sia o non sia Elena Ferrante, sicuramente Napoli è dove tutto è incominciato.

Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino

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3 novembre 2020

Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, Bompiani, 2019

di Elisa Cataldi

Difficilmente ascrivibile ad un preciso genere letterario – “fantasia storica” ?– difficilmente collocabile in un’epoca ed un luogo precisi, il Lettore ha, fin dalle prime pagine, la certezza di trovarsi di fronte ad un’opera letteraria di altissimo livello. In una lingua che lo scrittore mostra di padroneggiare con grande maestrìa  adattandola ai tempi e ai luoghi dei quali vuole narrare (quasi unico indizio di questi), il Lettore è subito affascinato da una straordinaria gradevolezza, quasi una musicalità che lo accompagna fino all’epilogo.

Quattro condannati a morte per motivi politici, su proposta di un quinto condannato, frate Cirillo, impiegano le loro ultime ore a raccontare l’episodio della vita che li ha resi più felici. Ne vengono fuori 4 narrazioni diverse (quasi un Decamerone notturno), che confluiscono nell’unica tetra cornice dell’attesa della morte. Per ognuno dei quattro l’espediente risulta in effetti l’occasione per una profonda analisi interiore, ognuno appare alle prese con la propria identità, con la frantumazione di un IO sfuggente ed enigmatico, ma sempre in modo molto sfumato, incerto tra la memoria e il sogno, fra il vero e il falso. E questa ambiguità, vera cifra di tutto il romanzo, ci accompagna fra continui spiazzamenti  e slittamenti di senso,  fino alla fine  in cui solo nelle ultime 10 pagine avviene un colpo di scena che cambia l’interpretazione di tutto.

Da questo momento al Lettore viene proposto il dubbio, il sospetto, la perenne ambiguità tra buonafede ed impostura, la sostanziale coincidenza tra l’essere e l’apparire. Da questo momento viene fornita una nuova chiave di lettura con la quale ognuno può reinterpretare tutto ciò che ha letto fino a quel momento, a cominciare dalla dedica “A noi due”. Noi due chi? Lui e una donna? Lui e il Lettore? Un omaggio o una sfida? Un finale aperto che lascia spazio alle riflessioni e al giudizio di ogni lettore.

Grande, grande, grande Bufalino. “Mastro don Gesualdo”, come lo chiamava Sciascia.

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di Roberta Ruggiero

Fantasia storica, in cui il Lettore è coinvolto.

Un grande Bufalino trasferisce mirabilmente la sua cultura e i suoi interessi nel libro. L’ambiguità è il tema di questo” Decamerone notturno” in cui, per molte di noi, la Sicilia è i suoi Autori entrano di prepotenza.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura

La discussione è stata particolarmente ricca di approfondimenti e in particolare è stata messa in evidenza l’eleganza della lingua e la profondità della cultura che attraversa queste pagine, sono state inoltre sottolineate le relazioni di Bufalino con autori quali i conterranei Pirandello e Camilleri, e anche in particolare Borges, Leopardi e per alcuni versi Durrenmatt, oltre ai numerosi riferimenti al mondo della musica e del cinema.

Si è detto che molti temi che attraversano il testo, sono propri della letteratura del ‘9oo sia per la filosofia di fondo che li anima, sia per le modalità della narrazione nel suo avvicinarsi alla verità per poi con uno scarto improvviso allontanarsene, nel labirinto del racconto di vite che si affacciano su un palcoscenico che si può definire barocco.

 

 

 

 

 

Il mago di Lublino di Isaac Singer

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6 Ottobre 2020

Isaac Bashevis Singer, Il mago di Lublino, Adelphi, 2020

di Roberta Ruggiero

Un visionario sospeso tra cielo e terra

Il libro ha il ritmo di una favola e riflette il mondo ebraico scisso tra spinte terrene e voli trascendenti. Visionarietà, ironia, humor e drammaticità si intrecciano.

Non è, per alcune di noi, il miglior Singer, soprattutto nell’epilogo.

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Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Si è parlato approfonditamente non solo della problematica e funambolica personalità del protagonista, ma anche si è ricordato quel mondo ricco di tradizioni e religiosità che nel cuore dell’Europa aveva la sua anima, cancellato dalla Storia con la Shoah, la deportazione e l’emigrazione.

Sono stati ricordati anche altri autori ebrei americani a cominciare da Israel Joshua Singer fratello di Isaac a Saul Bellow, Ph. Roth e Woody Allen, per ricordare la loro particolare condizione umana e culturale.

E’ stato sottolineato quanto la mano di Singer sia stata magica nella descrizione di tutti i personaggi, donandoci di loro ritratti vivissimi, e in particolare di alcuni paesaggi che in una pagina riletta insieme ci ha fatto pensare al lirismo leopardiano.

Molte però sono state le voci di dissenso in particolare per la “noia” provata leggendo la seconda parte del libro.

Si è detto anche che la lettera finale è uno scivolamento quasi deamicisiano, mentre in realtà il libro termina qualche pagina prima lasciando aperta e sospesa la storia di Yasha, il mago di Lublino. Si è accennato anche alle interessanti figure femminili.

 

 

 

 

Don Casmurro, di J. Machado de Assis

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4 giugno 2020

J. Machado de Assis, Don Casmurro, Fazi, 2014,

Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Dopo una breve e chiara introduzione sulla storia politica e sociale del Brasile e della personalità di Machado de Assis, fatta da Monica, si è aperta la discussione sul libro che per tutte è stato una piacevole scoperta. Con differenti e articolate analisi si è sottolineato quanto sia accattivante la scrittura di questo autore, abile nel condurre un continuo sapiente gioco con il lettore. Si è parlato di ironia, di pessimismo, di classi sociali, di un’autoanalisi del tutto inaffidabile fatta dal protagonista, di ambivalenza intrinseca della realtà, del mondo inteso come un palcoscenico sul quale agiscono personaggi influenti e determinanti per il racconto, insieme a personaggi di genere e soprattutto è stata sottolineata la forte presenza di letterati e filosofi della cultura europea nella formazione di questo importante scrittore brasiliano.

Infine e rimasta senza risposta la domanda: “Capitu ha tradito o no?”.

Per approfondire la conoscenza di Machado de Assis sono stati citati questi siti, tutti molto interessanti::

  1. You Tube: Fabio Ciracì, storico della filosofia: “Memorie postume di Brás Cubas” Joaquim M. Machado de Assis
  2. http://www.sagarana.it/rivista/numero1/critico.html è un articolo di Susan Sontang “Notizia dall’aldilà: Il caso Machado de Assis “ , introduzione a “Memorie postume di Bràs Cubas” traduzione di L.Marchiori, Rizzoli 1991, non reperibile.
  3. https://vieira.uniroma1.it/sites/default/files/5b.%20impaginato%2017-05-2015.pdf

Sonia Netto Salomão MACHADO DE ASSIS DAL “MORRO DO LIVRAMENTO” ALLA CITTÀ DELLE LETTERE con la traduzione di due racconti Viterbo Ed. Sette città 2014

 

I migliori anni della nostra vita, di Ernesto Ferrero

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15 gennaio 2020

Ernesto Ferrero, I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli, 2005

Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Tutte le Lettrici presenti hanno sottolineato il fascino di questo, per alcune romanzo storico, per altre cronaca di un tempo felice e particolarmente fecondo della cultura italiana. Si è detto che è stato come sfogliare la raccolta di foto d’epoca di persone care, quasi un’antologia e si è parlato anche della bella e ottima scrittura di Ferrero. Un solo dissenso si è fatto sentire, quando è stato detto che forse questo libro non sarebbe piaciuto ai protagonisti di quella stagione felice, perché racconta senza filtri il loro privato, quel lato della loro vita che andava rispettato proprio in persone così discrete il cui silenzio, in alcuni casi, le definiva e che forse avrebbero preferito essere raccontate esclusivamente dal loro lavoro.

 

Maestro e Margherita, di Michail Bulgakov

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9 marzo 2019

Michail Bulgakov, Maestro e Margherita, Mondadori, 2017

Registrazione della relazione del prof. Marco Caratozzolo, a cura di Elisa Cataldi

“Tra le Sue letture preferite, è un romanzo molto complesso, capace di scoraggiare molti lettori. Perfino gli studiosi fanno fatica a definirlo. Si può parlare di  romanzo enciclopedico perché vi si condensano varie forme letterarie per trattare i 2 – 3 temi principali, presi in considerazione da diversi punti di vista. Vi si può riconoscere la forma della satira ed anche la forma dialogico-teatrale (molto frequenti infatti, le trasposizioni teatrali), e c’è la forma del poema.

Il primo personaggio che appare è Brezdomnji, che vuol dire “senza casa”. In Russia ogni nome ha un significato e il tema della casa, in questo romanzo, è fondamentale. Casa in senso fisico e casa in senso affettivo, spesso non coincidenti. E’ un romanzo, nel romanzo, nel romanzo: si narra di uno scrittore (il Maestro) che ha scritto un romanzo. Alcuni parlano di romanzo Apocalittico per i riferimenti alla Bibbia, che B. conosce bene perché è vissuto in un ambiente di preti. Il padre è un prete sposato, lo zio Serghiej è un prete che ha fatto una gran carriera diventando un famoso teologo, docente all’Università di Kiev, per poi approdare a Parigi dove è entrato in contatto con molta della intellettualità dell’epoca. Per i Russi, l’Apocalisse è una delle parti più importanti della Bibbia. Forse perché ha a che fare con gli spazi infiniti della loro terra. I Russi non si accontentano mai di quello che vedono, tendono a non vedere la fine delle delle cose, gli orizzonti. Per loro ciò che non si vede, l’utopia, diventa possibile.

Definito anche romanzo fantastico, si svolge in 3 dimensioni: terra, cielo, inferi, in una continua confusione tra i concetti del  bene e del male. I Russi pensano sempre per opposizione radicale: o è bianco o è nero, o è inferno o è paradiso, o è male o è bene. Non hanno mai sviluppato come gli occidentali una visione intermedia, non esiste il Purgatorio, non esiste alcun mondo di mezzo. Come nella Croce Ortodossa: nell’alto ci sono Dio e  i Santi, nel basso i demoni, nel mezzo  c’è una linea diagonale che corrisponde all’ago della bilancia: o su o giù!

Potere e libertà sono temi dominanti non solo nella biografia di B., ma anche nel romanzo ed in tutti i personaggi, sia realistici che fantastici. L’essenza del romanzo sta già tutta nell’epigrafe tratta dal Faust di Goethe che dialoga con Mefistofele: “…Dunque tu chi sei? “ “ Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”. Dunque il diavolo: il tema del Diavolo è sempre molto presente nella letteratura russa. Il diavolo che è destinato a fare il Male, ma in mondo talmente negativo e corrotto, ogni suo intervento non può che configurare il bene. E qui viene fuori tutto il rifiuto, l’odio di B. per la corruzione dilagante della moderna società socialista, fatta di burocrati gretti, di critici asserviti al regime che costringono gli scrittori ad esprimere solo idee ad esso gradite.

Altro tema è la città: Mosca che B. amava tantissimo. Tutto il romanzo è scritto a Mosca e si svolge a Mosca. La città fisica si oppone a questo inferno, a questo luogo “altro” dal quale viene fuori il diavolo Voland e tutta la sua corte. Tutt’ora a Mosca, si possono visitare i luoghi di Bulgakov. Agli Stagni del Patriarca c’è un segnale stradale in cui è raffigurato un gattone nero (Behemoth) e la scritta…”mai parlare con gli sconosciuti!” Inoltre dobbiamo fare molta attenzione ai colori: soprattutto il Nero e il Giallo, molto importanti nella cultura russa. Dopo capiremo perché.

Il romanzo non ha alcun precedente né nella letteratura russa, né in quella europea. Presenta 3 diverse linee narrative: ognuna contiene un’ambientazione che sconfina in un’altra dimensione.

1 – Il MAESTRO, che non ha alcun nome, ha scritto un romanzo sulla Crocifissione di Cristo, argomento molto pericoloso per il regime sovietico. Il Maestro sta con Margherita, una donna sposata, neanche tanto bella, che quando lui viene catturato e mandato in un ospedale psichiatrico, farà di tutto per liberarlo.

2 – Il DIAVOLO. Ogni 30 anni deve organizzare un Sabba in una città diversa. Quest’anno sarà a Mosca e sarà dedicato a Margherita.

Woland arriva a Mosca e, vedendo la corruzione dilagante, decide di fare il bene e punisce i corrotti. La prima scena si svolge negli Stagni del Patriarca, luogo molto importante a Mosca. Woland ed il suo seguito, mettono a soqquadro la città.

La dimensione fantastica lascia il posto alla dimensione reale: il gatto che sale sul tram e vuole pure pagare il biglietto. B. prende questa commistione reale/irreale, da Gogol. (Nel suo famoso racconto Il naso, un naso si stacca da una faccia e se ne va in giro per San Pietroburgo con le sembianze di un ammiraglio. Le persone non si stupiscono di questo, ma del fatto che l’ammiraglio non mostri decorazioni sull’abito). Qui l’effetto comico si mescola col tragico e col romanzesco.

3 – La storia di CRISTO e di PILATO. B. aveva letto tutti i Vangeli Apocrifi, soprattutto quello di Nicodemo. E’ affascinato dalla figura di Pilato. B. inventa il rapporto Cristo/Pilato e lo attribuisce al Maestro. Tutti i nomi sono in Aramaico, la lingua del tempo di Gesù. Molto ben descritto il clima caldo e afoso. Pilato ha un gran mal di testa e odia Caifa. Ha capito che Cristo è innocente ma il suo giudizio non può prevalere su quello di Caifa. A Pilato, che durante l’interrogatorio lo accusa di andare in giro a predicare la verità, Cristo ribatte: “ma cosa è mai la verità?” “ La verità è che hai mal di testa, ma fra poco, quando ti raggiungerà il tuo amato cane, starai meglio”. Cristo, leggendo nel pensiero di Pilato, mostra così di possedere poteri paranormali e convince Pilato della sua grandezza. Qui B. si ispira alla Demonologia, ma anche alla tradizione del Presepe Russo-Ucraino che si sviluppa in verticale con la Natività in alto e, in basso, tutto il male rappresentato dai Demoni ed anche da Erode .

Nello spettacolo di magia, Woland mette a soqquadro tutto e tutti e fa scomparire i vestiti lasciando i personaggi nudi. Anche Margherita per partecipare al Sabba, si deve denudare. La nudità, nella Russia dell’epoca, rappresenta un grande tabù, ma per B. Nudità = Verità , concetto pericolosissimo per il regime sovietico e B. rischia di essere denunciato per propaganda sovversiva. Alla fine, il Maestro che era stato rinchiuso in una clinica psichiatrica, viene liberato, ma non ottiene la riabilitazione, bensì solo la pace. Pilato invece, che pentito e rimasto per 2000 anni a rimuginare le sue colpe, viene liberato da Woland. E’ tutto molto simbolico. Alcuni personaggi, così come alcuni passi del romanzo, anche lunghi, non appaiono funzionali alla storia, alla fine non vogliono dire niente. Anche in questo, come per la commistione fra reale ed assurdo, B. riprende lo stile di Gogol il quale era come se infilasse anelli in una lunga collana, che risultava ininfluente ai fini della narrazione (per es. ne “Il cappotto”).

WOLAND viene fuori dai trattati di Demonologia molto in uso nella Russia di quel tempo, ma anche dal Faust di Goethe e da Berlioz che aveva scritto “La dannazione di Faust”; infatti Berlioz è anche uno dei personaggi del romanzo. Non dimentichiamo che il diavolo compare ne “I fratelli Karamazov” di Dostoevskji ed anche in Gogol, ma per B. questo diavolo chi è, vestito secondo la moda dell’800, fustigatore di burocrati corrotti e di critici asserviti al potere? Un mecenate e giustiziere. Ma nella letteratura russa (diversamente da quella europea) non esiste un giustiziere, un giudice, non esistono i romanzi gialli. Qui gli unici giudici sono Dio e lo Zar . Di qui l’altra interpretazione possibile, che per B., Woland sia Stalin. Capovolgendo la W di Woland, infatti, appare la M. La M di Maestro, M di Margherita, ma Maestro era anche il modo in cui veniva chiamato Stalin. Oppure Woland è proprio Bulgakov nel suo intento di fustigare la corruzione dilagante ed i critici asserviti al potere.

MARGHERITA, come Anna Karenina, è un’adultera. E’ un personaggio che nasce nell’errore. Quando B. la descrive, al primo incontro col Maestro, Margherita ha un mazzo di “fiori gialli inquieti,  un soprabito nero ed una grande solitudine negli occhi”. E’ tutta una contraddizione: è una donna non bella eppure capace i esercitare sul maestro un’attrazione, una fascinazione fortissima. Il vestito nero è il segno del peccato (nero era pure il vestito di Anna Karenina quando al ballo seduce Vronskji). Il nero è anche il colore degli inferi, carico di simboli religiosi negativi. In Russia il giallo è il colore dell’emarginazione, della prostituzione (i manicomi si chiamano “la casa gialla”, le prostitute devono avere il biglietto giallo – Sonja in Dostoevskji).  Margherita, donna emarginata, presenta poi tratti di follia che attraggono ed affascinano Woland. Il diavolo fa le funzioni di Dio.

DIALOGO TRA WOLAND E LEVI MATTEO.  Woland è il Capo del Dicastero del Male, ma ha continui contatti col Capo del Dicastero del Bene che è DIO: fra loro, si dividono i compiti ed anche le sorti degli esseri umani. Levi Matteo è un fan appassionato, poco critico di Cristo, lo segue sempre in modo pedissequo e, secondo Woland, neanche tanto intelligente. Verso la fine del romanzo Woland incontra Levi Matteo e, in risposta al rifiuto, all’avversione di quest’ultimo, gli fa notare che le ombre (del male) sono necessarie. “Cosa farebbe il tuo bene se non esistesse il male?”.  Questo è un concetto molto radicato nella religione Ortodossa Russa: il peccato è necessario alla crescita, il bene si può raggiungere solo dopo aver esperito il male. Il bene e il male non solo dialogano, ma collaborano, si scambiano di posto, sono necessari entrambi. In questo senso Woland è visto non tanto come oppositore, quanto come strumento di Dio.

In risposta alle domande dei presenti, poi, il prof . Caratozzolo sviluppa questi importanti concetti:

– Il suicidio per i Russi è la colpa più grave. Questo è il romanzo del ‘900 in cui muoiono più persone (133 morti!). Morte come preparazione del bene

Rapporto di B. con Stalin. Non tutte le colpe sono di Stalin.

I Russi hanno sempre ritenuto necessario un Capo, un Padre buono (lo ZAR). Stalin ammirava B. e, da stratega consumato, risponde pure alle ripetute lettere e telefonate di B. Gli dà un posto nell’ambitissimo Teatro dell’Arte, salvo poi a non permettere mai la pubblicazione del suo romanzo!

La religione in epoca post-rivoluzionaria: i Russi non sono mai stati e mai saranno atei!

Colui che più aveva vietato le manifestazioni religiose era stato non tanto Stalin, quanto soprattutto Lenin: aveva saccheggiato le chiese, uccidendo coloro che le difendevano, perché quei beni servivano a finanziare la rivoluzione (il fine giustifica i mezzi).

Biografia di Michail Bulgakov.

Era un personaggio molto inquieto, un carattere molto difficile, già prima della Rivoluzione, che di fatto non accettò mai. Nacque a Kiev in Ucraina nel 1891. Kiev, prima di essere rasa al suolo dai Mongoli di Gengis Kan, era la capitale della Russia e aveva dato i natali a molti grandi letterati come Gogol. Suo padre era un prete che non fa carriera, restò curato, si sposò ed ebbe molti figli. Il fratello del padre invece, Serghiej, diventò un famoso teologo, docente all’Università di Kiev e approdò perfino a Parigi dove ebbe modo di frequentare l’intellettualità parigina. B, quindi, cresciuto in un ambiente fortemente religioso, maturò con la religione un rapporto molto conflittuale. Cercò sempre, nella figura di Cristo, il lato umano (esattamente come come Tolstoji ). Partì però dal presupposto che i Vangeli Canonici hanno molto taciuto, molto travisato ed edulcorato la verità (Tolstoji). Il rapporto con la Chiesa Ortodossa non è mai stato lineare. Studiò medicina e come tanti altri scrittori russi, scoprì la letteratura attraverso la Scienza (Cechov, Dostoevskij erano ingegneri): le 2 dimensioni della cultura russa dialogano sempre tantissimo. Si laureò nel 1918 in piena guerra civile, ma, non accettando la rivoluzione, scappò ad Odessa, per poi tornare a Mosca. L’apprendimento della professione medica, prevedeva un tirocinio per il quale B. venne mandato in un paesino sperduto del Caucaso a curare i poveri contadini, con turni massacranti. Un po’ per sopportare la fatica, un po’ per curare un’infezione sopravvenuta nel curare una bambina con la difterite, B. cominciò a fare uso di morfina fino a diventarne dipendente da vero e proprio morfinomane. Questa esperienza è descritta nel bellissimo “I racconti di un giovane medico”, nel quale già vediamo comparire il tema del conflitto fra il bene ed il male. Mentre cura le persone il medico sente le voci del diavolo che lo consiglia per il male e di un angelo che gli suggerisce il bene. Tornò a Mosca alla fine degli anni ’30 e cominciò con lo scrivere brevi racconti (che dovevano durare 30 minuti), seduto nella redazione di un giornale, fumando in modo accanito. Questi racconti saranno pubblicati su riviste di lavoratori come ferrovieri, medici etc. Siamo negli anni ’30. E’ l’epoca di Stalin che lui odiava tanto da dover evocare il Diavolo (Woland) per annientarlo.

Il Maestro e Margherita ha avuto una gestazione di circa 12 anni, scritto dalla moglie sotto dettatura. Quando B. morì, nel 1940, il romanzo era appena terminato. Ma non fu mai pubblicato fino al 1967,  anno in cui fu presentato, pur con indecorosi tagli di censura.

Le notti bianche, di Fedor M. Dostoevskij

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1 febbraio 2019

Fedor Michajlov Dostoevskij, Le notti bianche, Feltrinelli, 2015

Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

E’ stato evidenziato che in questo breve testo le grandi problematiche del pensiero maturo di Dostoevskij ancora non compaiono. Altrettanto ne è stata messa in evidenza la poeticità e sono stati discussi i temi che il protagonista senza nome impersona, dai disagi tipici di un giovane,  il suo sognare, il rapporto che ha con le cose che lo circondano, alla condivisione con Nasten’ka della lettura di alcuni classici del Romanticismo, letti questi anche da Dostoevskij, dei quali si sente l’influenza in particolare nelle sue prime opere. E’ stata evidenziata la bellezza dell’incipit ed in particolare il protagonismo del paesaggio di Pietroburgo.

Durante l’incontro molti sono stati i riferimenti al film di Visconti “Le notti bianche” del 1957, con Maria Schell e Marcello Mastroianni e al film “Quattro notti di un sognatore” di Robert Bresson del 1971.

 

 

Bambini di ferro di Viola Di Grado

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16 dicembre 2018

Viola Di Grado, Bambini di ferro, La nave di Teseo, 2016

di Vera Meneghello

Testo originale sia per forma che per contenuto. Estremamente elaborata la ricerca di aggettivazione e di costruzione lessicale.  Lettura complessa dove si sovrappongono più piani che si intrecciano continuamente: quello della narrazione di pochi personaggi, tutti femminili, coinvolti in una storia al limite della fantascienza, quello religioso con la descrizione della vita di Buddha e le continue citazioni del suo pensiero e quello neuro-psichiatrico da cui la scrittrice attinge contenuti scientificamente attendibili. Quindi un vero e proprio connubio e sintesi tra creatività e scientificità come nei classici testi fantascientifici.

Prosegui la lettura…

Ritratto di signora, di Henry James

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18 gennaio 2017

Henry James, Ritratto di signora, Newton Compont, 2015

Breve nota a cura di Isa Bergamini dopo l’incontro del gruppo di lettura:

Durante l’incontro sono stati citati alcuni particolari della storia, la psicologia dei personaggi e soprattutto i tanti bellissimi dialoghi e alcune intense descrizioni. Fra le pagine più amate è stato indicato soprattutto l’incipit, e senza mai dubitare di considerarlo un classico, si è anche detto che questo libro può apparire in parte datato.

La grande maestria di James è stata messa in evidenza soprattutto per la struttura del romanzo e per la definizione dei suoi personaggi, in particolare quelli di secondo piano.

E’ stato poi visto il bellissimo film “Ritratto di signora” del 1996, regia di Jane Campion con Nicole Kidman e John Malkovich.

Pastorale Americana di Philip Roth

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17 dicembre 2015

Philip Roth, Pastorale americana, Einaudi, 1998

di Elisa Cataldi

Nathan Zuckerman, citando Kafka, afferma:…

Credo che dovremmo leggere solo quei libri che ci mordono e ci pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci scuote, cosa lo leggiamo a fare?” (dall’esergo di “Roth scatenato” di Claudia Roth Pierpont)

Bene, è proprio questo l’effetto di questa storia. Un libro complesso e durissimo, con l’intensità di una tragedia moderna capace di graffiarti l’anima, di darti un’emozione indelebile, di metterti di fronte a mille interrogativi, perché non è un romanzo consolatorio, non da facili risposte, non conosce “lieto fine”, è una storia fatta per sparigliare, per portare il disordine, il dubbio, per proporre la vita in tutta la sua crudele realtà. Tematiche universali come la famiglia, il rapporto genitori figli, la costruzione della propria identità, la psicanalisi, il laicismo ebraico,la memoria ,la malattia e la paura della morte e, soprattutto in questa storia, l’America degli  anni ’60-’70 con tutte le sue contraddizioni.

Prosegui la lettura…

I girasoli ciechi di Alberto Méndez

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25 novembre 2015

Alberto Méndez, I girasoli ciechi, Guanda, 2006

di Elisa Cataldi

Bellissimo. Fra le più struggenti testimonianze contro la guerra e tutti i regimi, che io abbia mai letto.

Con una scrittura sobria ma fortemente lirica, l’autore ci fa vivere in quattro racconti, il dramma collettivo della Guerra Civile Spagnola, ma dalla parte dei vinti. Prosegui la lettura…

La notte di Lisbona di E.M. Remarque

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5 novembre 2015

Erich Maria Remarque, La notte di Lisbona, Neri Pozza, 2015

di Amalia Mancini

Ci sono tanti modi per elaborare un lutto, cancellare un passato con un peso non indifferente sulla propria esistenza,  soprattutto se si tratta di una guerra mondiale, la prima,  inutile carneficina di cui si è stati testimoni, come accadde a E. M. Remarque: le piaghe che lo avevano tormentato per l’intero conflitto indugiarono a richiudersi, tanto da costringerlo a scrivere  un romanzo importante come “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, per accusare i potenti di quell’inutile ecatombe.

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Norwegian Wood di H. Murakami

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24 giugno 2015

Murakami, Norwegian Wood, Einaudi Super ET, 2013

di Amalia Mancini

E’ strano come una musica possa unire mondi geograficamente e culturalmente tanto lontani. Questa strana alchimia accade per Norwegian Wood.
Musica scritta dai Beatles negli anni sessanta che riecheggia, oltre che nel titolo, nel romanzo dello scrittore giapponese Murakami, scandendo con le sue note la vita del protagonista. Prosegui la lettura…

La mammana di Antonella Ossorio

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20 gennaio 2015

Antonella Ossorio, La mammana, Einaudi, 2014

di Antonella De Maio

Storia interessante e originale che tocca temi importanti come l’identità sessuale, lo stigma sociale verso i “diversi”, la superstizione popolare, il radicamento al territorio, l’affinità fra simili. Ho trovato molti passaggi di questa storia davvero toccanti per la loro poesia e per la loro forte carica simbolica: Prosegui la lettura…

Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi

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20 dicembre 2014

Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, Adelphi, 2014

di Amalia Mancini

E’ strano verificare quanto valore abbia la lettura e quanta forza creativa siano capaci di sprigionare un gruppo di donne che decidono di riunirsi per discutere di libri e letteratura. Formano un cerchio magico che improvvisamente le avvolge e le coinvolge, rendendo questa esperienza unica e irripetibile.
Se poi questo accade in un paese dove la libertà è privilegio solo dei maschi, come in “Leggere Lolita a Teheran”, si avverte allora tutto il peso del burqa e delle ali tarpate alle giovani intellettuali iraniane. Ti accorgi di quanto siamo fortunate a essere nate nella nostra penisola mediterranea, di quanto sia importante la geografia, oltre che la storia, naturalmente. Prosegui la lettura…

Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi

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5 novembre 2014

Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore, Einaudi, 2009

di Isa Bergamini

Una grande testimonianza per un amore perduto ed un rigoroso documento sugli anni ’70, ricco di indizi anche per capire la storia del nostro paese in questi ultimi venti anni.
Molti gli interrogativi senza risposta, primo fra tutti è – come è potuto accadere? Quando ci siamo distratti ed è iniziato quel processo d’imbarbarimento? – Non si trovano risposte che possano giustificare, ma il libro della Tobagi è un serio contributo per cercare di capire, per cercare di non incorrere ancora nelle condizioni per cui si possa scatenare di nuovo una guerra come quella di quegli anni, dei figli contro i padri, una intera classe dirigente che ne fu travolta. Prosegui la lettura…

Acciaio di Silvia Avallone

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11 giugno 2014

Silvia Avallone, Acciaio, Rizzoli, 2010

di Rosalba Tagliente

La lettura e la comprensione di questo libro è stata facilitata dalla conoscenza dei luoghi e degli ambienti di cui si parla, non perché sono di Piombino, ma per similitudine. Conosco la periferia di Taranto “rione Tamburi” a ridosso dell’Ilva che all’inizio si chiamava Italsider, vista crescere sotto gli occhi, anno dopo anno, soppiantando vigneti e uliveti, mentre andavamo in autobus al mare. Prosegui la lettura…

La figlia di Clara Usòn

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20 marzo 2014

Clara Usón, La figlia, ed. Sellerio, 2013

di Isa Bergamini

Titolo originale: “La hija del Este”

La storia ci insegna che gli uomini e i governi non hanno imparato nulla da essa” G. Fr. Hegel
Questo uno dei due esargo del bellissimo libro di Clara Usón, il filo teso in tutto il romanzo, nel quale la guerra adempie fino in fondo al suo rito sacrificale. Prosegui la lettura…

Dove comincia la notte di Alessio Viola

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26 gennaio 2014

Alessio Viola, Dove comincia la notteed. Rizzoli, 2013

di Amalia Mancini

In questo romanzo Alessio Viola sembra voler indicare al lettore quella sottile linea d’ombra che segna la fine del giorno.
“Dove comincia la notte” mostra la demarcazione tra bene e male, felicità e infelicità, gioia e dolore, angoscia.
Il protagonista, Roberto De Angelis, nome anche questo significativo (non certo Lupis o De Lupis), poliziotto “scafato”, espertissimo del mestiere, professionista doc, si dibatte in una atmosfera grigia, senza grandi passioni o impulsi, e, soprattutto, senza scrupoli piccolo-borghesi. Si lascia trascinare dagli eventi, spesso varcando questa sottile linea, senza perplessità o esitazioni etiche. In lui si avverte un male di vivere, un’esistenza infelice, senza bagliori all’orizzonte. Eppure anche lui sembra essere alla ricerca di sentimenti veri, sinceri. L’unico legame positivo è l’amicizia con un giovane killer, Giacinto. Prosegui la lettura…

L’Opera al nero di Marguerite Yourcenar

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09 dicembre 2013

Marguerite Yourcenar, L’Opera al nero, Feltrinelli, 1969

di Carmela Masciale

Ho letto quest’Opera nel 1988 e riletto un mese fa a 25 anni di distanza. Ne ricordavo per sommi capi la vicenda, ma ricordavo benissimo la figura di Zenone. Il libro mi era piaciuto molto e rileggerlo mi ha ridato le stesse emozioni provate in passato. Non ho dovuto studiarlo, analizzarlo, cercare collegamenti filosofici, teologici perché non ho basi culturali umanistiche per poterlo fare; mi sono lasciata condurre, nello snodarsi delle varie vicende, da Zenone e l’ho seguito lungo il suo percorso. Prosegui la lettura…

Un calcio in bocca fa miracoli di Marco Presta

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03 novembre 2013

Marco Presta, Un calcio in bocca fa miracoli, Einaudi, 2012

di Antonella De Maio

Nessuna sorpresa nel constatare l’acutezza e la profondità porte in modo lieve, ma mai superficiale, in questo terzo lavoro letterario di Marco Presta.
Il protagonista del romanzo è “un vecchiaccio” cinico e senza nome che vive la sua vita evitando ogni responsabilità, fino a che l’arrivo della figlia in crisi con il marito e la tenace bontà del suo amico storico, Armando, lo scuotono dalla sua monotona esistenza e lo proiettano in una dimensione equilibrata e consapevole, riscattandolo. Prosegui la lettura…

La signorina Else di Arthur Schnitzler

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03 novembre 2013

Arthur Schnitzler, La signorina Else, in Opere, Mondadori, 2001

di Elisa Cataldi

Un’opera molto breve ma estremamente coinvolgente, che si legge “tutta d’un fiato”. Si tratta del racconto di quello che una circostanza estremamente traumatica, provoca nella mente di una ragazzina poco più che adolescente: dover scegliere fra l’amore per il padre e l’amore per se stessa.
In seguito ad una truffa messa in atto dal padre, i genitori le suggeriscono di chiedere il denaro necessario ad evitargli la prigione e forse il suicidio, ad un “rivoltante” mercante d’arte, che sanno bene essere invaghito di lei. Ed infatti, puntuale arriva il ricatto: per ottenere quel denaro lei deve mostrarsi nuda agli occhi corrotti di lui. Prosegui la lettura…

La colpa del coltello di Giacomo Annibaldis

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19 giugno 2013

Giacomo Annibaldis, La colpa del coltello, Edizioni di pagina, 2013

di Elisa Cataldi

“La colpa del coltello” – ma che vuol dire? Stiamo cercando un colpevole? Di cosa? Di quale sofferenza? Di un’adolescenza difficile, vissuta in un istituto di preti, lontano dalla famiglia perché disagiata spesso in seguito alla morte del capofamiglia, unico capace di mantenerla. E…il colpevole chi è? E’ “il coltello”…. cioè… nessuno, è il destino, neanche un responsabile col quale prendersela!
Il libro esordisce e si conclude con le risposte a questi drammatici interrogativi.
E’ la strategia dell’incolpevolezza (9). E’ stata mozzata la coda alla lucertola: di chi è la colpa? “Non so’ stato io, non so’ stato io. E’ stato il cane della vicciaria”. Prosegui la lettura…

Il mio nome è Rosso, di Orhan Pamuk

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8 giugno 2013

Orhan Pamuk, Il mio nome è rosso, Einaudi, 2001

di Franca Botrugno

Il rosso, il colore principe della miniatura, si presenta in prima persona (cap. 31), racconta come nasce e celebra le sue qualità di pienezza, forza e vivacità: “Il mondo è a partire dal mio color sangue. Chi non vede lo nega, ma io sono ovunque” (pag 199). Miniatura peraltro deriva dal latino “minium” che è un particolare minerale dal quale si ricava il colore rosso.

Ambientato ad Istanbul nel 1500 ca, questo romanzo è un thriller, sui generis, nel senso che pur snodandosi alla ricerca dell’assassino di un miniaturista, il delitto non rappresenta il vero corpo dell’opera. La vera protagonista del romanzo è, infatti, la miniatura, arte antichissima persiana, che attinge ad elementi importati dai cinesi e indiani, poi esportata in tutto il mondo ottomano.
Pamuk descrive Il mondo della miniatura e dei miniaturisti in maniera superba, vuol far conoscere ogni minimo particolare di questa arte e dei suoi artefici, ci vuol portare a capire il codice della costruzione dell’immagine e come, ciò che viene tramandato, non sono solo illustrazioni di racconti ma icone del sapere e di un sapere legato alla fede. Attraverso la miniatura, con la diversità di esprimersi nell’arte, si analizzano due culture l’orientale e l’occidentale nella loro continua e ancora attualissima contrapposizione (vedi anche Turchia ed Europa oggi) con la difficoltà di accettarsi ed integrarsi.
E’ un romanzo polifonico, tanti i personaggi, tante voci narranti che raccontano in prima persona, mostrando abilmente i diversi punti di vista, della stessa storia. Parlano anche in prima persona, occupando singoli capitoli, i vari soggetti della miniatura: l’albero, il cavallo, la morte, i due dervisci, il rosso, la moneta dando spaccati culturali particolari.
E’ un romanzo che ho amato e odiato a fasi alterne, un romanzo molto originale per l’intelaiatura (racconto in prima persona), ma complesso se pur di scrittura molto fluida, armoniosa a volte ammaliante. Per la sua particolare impostazione ha bisogno di tempo e concentrazione per essere apprezzato a pieno. Una lettura non facile, a mio parere, per tanti motivi di cui il principale, penso, sia entrare e decifrare, con la nostra mentalità occidentale, la cultura orientale così diversa dalla nostra nel modo di interagire, guardarsi, parlarsi dei vari personaggi, il loro credo profondo e la particolare sensibilità.
Una lettura comunque interessante, penso, destinata a chi ha voglia di conoscere mondi sconosciuti.

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di Elisa Cataldi

L’arte della miniatura alla corte del sultano turco Murat III (1574 – 1595).
Tutto il romanzo si snoda intorno al contrasto tra i miniaturisti della vecchia scuola Ottomana, di stile persiano ed i miniaturisti più aperti al nuovo stile occidentale e cristiano che si va diffondendo in Europa.
Sullo sfondo di questo contrasto si consumano una serie di efferati delitti, ma anche un’appassionata (?) storia d’amore.
Un romanzo storico? Un thriller? Una storia d’amore? Un po’ tutto questo, ma nessuno dei generi letterari citati basterebbe a giustificare una tale mole di nomi impronunciabili, di situazioni, di considerazioni!
Il risultato globale è innegabilmente un po’ faticoso, prolisso, logorroico se ci si ferma al valore strettamente letterario. A fronte di questa “ridondanza” però, l’opera acquista importanza se ci rendiamo conto che il tema dell’arte della miniatura non è che l’eterna metafora, tanto sentita da Pamuk, del conflitto fra tradizione e modernità.
Il pericolo di un ritorno ad un Medioevo Islamico tutt’oggi riproposto in modo strisciante è un motivo ricorrente nelle opere di Orhan Pamuk.
Significativa a questo proposito, la motivazione con la quale nel 2006 gli fu assegnato il premio Nobel: “Nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra culture diverse”.
E comunque, nonostante tutte le dichiarate ambizioni europeiste e occidentalizzanti, la tentazione di tornare a un Medioevo Islamico è tuttora fortissima, basta guardare gli avvenimenti di questi giorni che mettono al centro dell’attenzione l’identità problematica e conflittuale del popolo turco.

 

Vergogna, di John Maxwell Coetzee

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15 aprile 2013

John Maxwell Coetzee, Vergogna, Einaudi, 2003

di Antonella de Maio

David è un professore universitario che ha superato i cinquant’anni, insegna senza passione Scienza della Comunicazione a studenti che a loro volta non si appassionano alla materia. Sposato già due volte in modo fallimentare, con una figlia adulta, David è il classico uomo immaturo e narcisista che si fa guidare solo dai suoi istinti primari. Non può guardare una donna senza fare apprezzamenti sul suo aspetto fisico, sulla sua età e sugli eventuali risvolti seduttivi che quell’incontro potrebbe portare (accade persino quando conosce la sorella minore di Melanie: i suoi pensieri potrebbero fare il paio con quelli di Humbert verso Lolita). Più volte paragona gli esseri umani ai cani, quasi a giustificare la natura istintuale degli uomini e la sua in particolare. Sostanzialmente è un uomo che ha paura di invecchiare e di morire e per esorcizzare questi due spettri si annienta in comportamenti irresponsabili (come il protagonista del film del 2009 Solitary man di Koppelman e Levien). Così, quando è costretto a lasciare l’università perché seduce una delle sue studentesse, va a trovare sua figlia Lucy, con cui non ha mai avuto una grande comunicazione e qui gli si apre una nuova prospettiva da cui guardare la realtà e staccarsi da sé e dal suo egoismo. L’ambientazione nel Sudafrica del primo mandato di Mandela è determinante per capire il contesto di rabbia e di ribellione dei neri, appena usciti dalla opprimente dominazione dei bianchi. Così succede che Lucy, che vive da sola in una fattoria, venga violentata a turno da tre neri, quasi sotto gli occhi del padre. Rimasta incinta dopo lo stupro, decide di tenersi il bambino e di rimanere nella fattoria, accettando perfino la vicinanza con uno degli stupratori e la protezione dell’ambiguo vicino, Petrus. David è furioso con gli stupratori di sua figlia, ma non valuta minimamente di essere stato anche lui, sebbene con modalità più “civili”, lo stupratore di Melanie, la studentessa che lo ha denunciato. Romanzo inquietante e a tratti irritante, scritto dal punto di vista di David e con dei vuoti narrativi o delle situazioni che lasciano interdetti, ai limiti del paradosso. Una su tutte, la visita surreale di David a casa di Melanie e l’accoglienza quasi cordiale del padre di lei. Si può interpretare la decisione di Lucy di restare come la volontà di aprirsi al futuro, ma anche come la presa d’atto della totale inadeguatezza genitoriale di David che non riesce ad essere mai per lei un punto di riferimento.

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di Elisa Cataldi

Perché proporre un libro così violento? Così crudo? Perché ha il fascino di tutte le storie che finiscono con dei punti interrogativi, di tutte le storie non facili, che sanno suscitare emozioni, forse anche sdegno, ma fanno riflettere, e ti portano alla necessità di confrontarti. Una storia importante, dura, amara, senza speranze, senza illusioni, nella quale le scelte risultano ineluttabili, spesso difficili da comprendere, ma conformi ad una “Storia” che deve fare inesorabilmente il suo corso (scelte come quelle di Lucy, come quelle di David, perfino col cane delle ultime righe del libro…). Perché la vita è così, intensa e crudele, violenta e paradossale, ma a momenti anche tanto poetica e struggente!
Un libro “bello”? NO! Non è l’aggettivo adatto! Non ci sono pillole da indorare, non ci sono consolazioni o ipocrisie. E’ un libro vero, questo sì, che ti coinvolge e ti sconvolge !
Lo stile è scorrevole, facile, accattivante. A. Baricco (in “Una certa idea di mondo”) dice di questo libro che è caratterizzato da una tale facilità di scrittura, da una prosa così inevitabile e perfetta, che permette al lettore di usare l’intero cervello per pensare a quello che legge, visto che non fa nessuna fatica a capirlo. “Dato che il sentiero è in discesa e pulitissimo, guardi meglio il paesaggio: e il paesaggio, nei libri, è l’intelligenza dello scrittore, i contenuti!”

Le tematiche:
– le fragilità di un uomo alle soglie della vecchiaia
– il rapporto di amore/incomprensione fra padre e figlia
– lo stupro (anzi, gli stupri) analizzato con grande sensibilità e partecipazione emotiva
– la società sudafricana post-apartheid

Bruciante segreto, di Stefan Zweig

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18 marzo 2013

Stefan Zweig, Bruciante segreto, Adelphi, 2010

di Amalia Mancini

“Solo gli occhi di un bambino potranno svelarci i segreti del mondo!”
In questo romanzo breve di Zweig è proprio quello che accade. L’innocenza del protagonista, un preadolescente fragile e sensibile, desideroso di amicizia e affetto, come tanti a quell’età, ci guida a scoprire la perfidia e la falsità di un giovane barone, conosciuto nell’albergo dove soggiorna noiosamente con la madre, a causa di una lunga convalescenza.
L’amicizia che il barone gli offrirà è solo frutto di un’astuta macchinazione. Egli è un abile cacciatore di donne e, come tale, era fortemente interessato alla madre. Si servirà del bambino, fingendosi amico, solo per raggiungere il suo scopo.
Il racconto si svolge agli inizi del ‘900 e rivela un quadro di quelli che erano i rapporti sociali dell’epoca, narrato magistralmente da S. Zweig.
Nel libro aleggia una nota di dolore, frutto della struggente delusione che vivrà il protagonista, schiacciato dall’indifferenza degli adulti, di cui non comprende i comportamenti e le regole.
La madre, verso cui prova un trasporto incondizionato e sincero, si rivelerà fatua e leggera, secondo i canoni del suo tempo, presa dalla sua vanità più che dall’amore materno.
Sarà con il dolore che il bambino crescerà, scoprendo un “bruciante segreto”. Comprenderà così la crudeltà degli adulti con la sua sofferenza, senza rendersi conto che tacendo diventerà loro complice e varcherà quel fragile filo che separa l’infanzia dall’adolescenza.
Sarà solo attraverso la menzogna, che perderà la sua iniziale innocenza. Dovrà perdonare e tacere per poter conquistare una carezza dalla madre!

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di Antonella De Maio

Se in “Paura” il tradimento della protagonista è dettato dalla noia, in “Bruciante segreto” la disponibilità alla seduzione del giovane barone da parte della madre del piccolo Edgar è dettata dalla vanità. La narrazione viene fatta dal punto di vista del bambino che prova entusiasmo, frustrazione, rabbia, umiliazione, impotenza, disillusione e la terribile esperienza del tradimento della madre e del falso amico, per poter arrivare poi alla riappacificazione e alla complicità con la madre, in cambio della sua omertà. Anche questo breve romanzo scritto/tradotto benissimo, anche qui una donna che tradisce un marito ricco e affermato di cui poco si sa. Anche qui un maschio, il figlio, ancorché piccolo che riporta la donna sulla retta via affrontando inverosimilmente l’adulto seduttore e azzuffandosi con lui. Ho visto in questa storia un complesso edipico e una proiezione paterna nel piccolo Edgar: lui rivendicava per sé le attenzioni della madre, sentendosi tradito da lei. Quando sceglie di non svelare a suo padre l’accaduto, Edgar capisce di aver ottenuto, come rivela in modo inquietante nell’ultima pagina del libro, la definitiva rinuncia della madre a pensare a sé come una donna e “di appartenere in futuro unicamente a lui, al suo figliolo”. Non giustifico il tradimento della donna, ma la mancanza di rispetto verso l’intelligenza e la maturità delle donne che emerge da questa storia. E’ vero che è stata scritta agli inizi del Novecento, ma ancora oggi non è attuale questo moralismo nei confronti dei tradimenti femminili? Di contro, allora come oggi, non c’è forse una eccessiva indulgenza verso i tradimenti maschili?

Paura, di Stefan Zweig

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18 marzo 2013

Stefan Zweig, Paura, Adelphi, 2011

di Amalia Mancini

Solo uno scrittore di grande talento come S. Zweig poteva rappresentare con i colori giusti, in modo puntuale e preciso, il quadro della condizione della donna borghese d’inizio novecento. In realtà Irene ci è proprio antipatica.
La protagonista del romanzo breve di S. Zweig rappresenta il prototipo di una donna fatua, superficiale, educata alla cura di sé, senza grandi passioni, né per i figli, né per il marito né tanto meno per il suo amante, tutto ciò accade all’inizio del secolo scorso, in tempi non sospetti, in cui già iniziavano ad emergere personaggi femminili di un certo spessore, basti pensare alla Montessori.
Eppure Irene è anche lei vittima inconsapevole dei suoi tempi, dolcemente adagiata nel ruolo che le hanno attribuito. Sicuramente senza grande fantasia, in balia del maschio che l’ha forgiata a proprio uso e consumo.
Irene non ha infatti neanche licenza di peccare, sbagliare, che su di lei si scaglia portentoso e angosciante il castigo, il senso di colpa che diventa sempre più ossessivo e ossessionante. Quella che doveva essere una passioncella, un diversivo alla sua vita noiosa e inutile, diventa un incubo da cui non sa proprio come uscire, se non con mezzi estremi. Umiliata dalla vita alla quale non sa dare le risposte giuste perché non ha mai imparato a fare niente da sola, a prendere decisioni, ad amare con consapevolezza e trasporto e non solo per dovere ed educazione, Irene capirà solo tardi e in parte, quali sono i veri valori della vita.
La sua pace sarà, anche quella, raggiunta grazie all’intervento mirato del marito. E’ lui che veglia e provvede, come un gran burattinaio, sulla sua famiglia e sulla moglie, grazioso e fragile gingillo che va manipolato con la cura e l’attenzione necessaria perché non infrangibile!

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di Antonella De Maio

Progressione ansiogena e appassionante del senso di colpa di una donna frivola e viziata che si vede all’improvviso ricattata da una donna grossolana e volgare che minaccia di rivelare al marito la sua tresca con un amante. Si potrebbe riassumere così la trama di questa storia se non fosse per il finale: in realtà la ricattatrice è stata pagata dal marito della donna (avvocato penalista di professione), per spaventarla e farla tornare in seno alla famiglia. L’uomo sfrutta tutta la sua esperienza professionale per intraprendere un crudele gioco, come il gatto con il topo e decidere con lucida determinazione quando rivelare alla moglie la verità, cioè quando questa sta quasi per suicidarsi. Un’agghiacciante storia di violenza psicologica che non viene giustificata in nessun modo dalla colpa della moglie: l’uomo decide di essere l’educatore di sua moglie così come lo è di sua figlia, deve insegnare loro, in quanto uomo, il valore della paura e della vergogna. La concezione della donna è profondamente maschilista. Scritto/tradotto benissimo.

La zia Julia e lo scribacchino, di Mario Vargas Llosa

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6 marzo 2013

Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino, Einaudi, 1994

di Amalia Mancini

Il libro fu pubblicato in Italia nel 1977 da Vargas Llosa allora ancora sconosciuto. Si portava dietro quell’odore di Sudamerica che sarà per lungo tempo caro a un certo pubblico italiano. Pur essendo uno dei suoi primi romanzi mostra già in pieno la ricchezza e l’intensità di scrittura che lo renderanno famoso in tutto il mondo fino a fargli vincere, non a caso, il Nobel. Vargas Llosa mette in moto una macchina dell’immaginario che si rivela di indomabile vitalità.

La vicenda si sviluppa su due piani: da una parte la storia del giovane scribacchino con tante ambizioni e due grandi passioni una per la zia Julia e un’altra per la scrittura. Sull’altro piano si snodano le storie melodrammatiche e truculente, che tanto appassionano gli abitanti di Lima, ideate da Pedro Camacho, il “Balzac creolo”. Questi, lavoratore indefesso, uomo di fantasia fervida e irrefrenabile destinata a sfociare nella follia, affascina il giovane giornalista, Mario, protagonista della storia, diventando per lui un modello a cui ispirarsi, da seguire. Il romanzo quindi da un lato segue un modello realistico-autobiografico, la storia di Mario e del suo amore impossibile per la zia, dall’altro fantastico surreale. La storia d’amore alimenta anche la formazione e la crescita di Mario che passa dall’adolescenza alla maturità. E’ tutto immerso nel paesaggio peruviano, cangiante e da scoprire per noi europei. Gli abitanti di Lima sono incantati dalle favole di Camacho calate in mondi impossibili, dove tutto può succedere: possono comparire sopravvissuti di mondi primordiali, oppure un padre crudele può essere massacrato dalla famiglia, oppure si narra la fuga dal convento di una novizia con un musicista per essere poi inghiottiti dal terremoto… Nulla è sconosciuto alla ricca e feconda fantasia di Pedro, come nulla è definitivo. Molti suoi racconti lasciano il finale in sospeso, perché le storie sono sempre aperte a finali variabili (anche Calvino si orienterà in su questo binario in quegli stessi anni).

Apprendiamo i modi di vivere di un mondo lontano, come per esempio appassionava i sudamericani l’ascolto dei radiodrammi, le future telenovele… , le loro passioni e i loro sentimenti, le convenzioni piccolo-borghesi… Pedro, con le sue trame, rappresenta, in qualche modo, la letteratura secondo Llosa. Per il nostro autore, infatti, “scrivere è creare una vita parallela ove rifugiarsi dalle avversità, una difesa contro i fallimenti, le mediocrità quotidiane”. Niente è casuale o involontario. Lo si scopre leggendolo fino in fondo. La scrittura è ricca e avvincente, a volte ironica e funambolica, rivela l’abilità di un indiscutibile maestro. Secondo Llosa “scrivere romanzi è un atto di rivolta contro Dio, contro quell’opera di Dio che è la realtà”.

Vorrei aggiungere che questo genere di rivolte non mi dispiace perché, in fondo, ci aiutano a vivere meglio.

L’amico ritrovato, di Fred Uhlman

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14 gennaio 2013

Fred Uhlman, L’amico ritrovato, Feltrinelli, 2012

di Angela Mengano

Quando nel gruppo di LeggerMente si è pensato al tema dell’Amicizia, alla memoria mi è subito tornato questo piccolo – solo per la dimensione, meno di cento pagine – imperdibile libro che Arthur Koestler nella prefazione definisce a buon motivo, un capolavoro.
La storia di un’amicizia nel suo significato più alto, quando la difesa dei valori condivisi con chi si è scelto reciprocamente per amico supera i limiti dell’umana esistenza, è resa con una delicatezza e una intensità che non si dimenticano.

La porta, di Magda Szabò

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9 gennaio 2013

Magda Szabò, La porta, Einaudi, 2007

di Elisa Cataldi

Si tratta della storia dell’amicizia veramente strana ed imprevedibile fra due donne molto diverse: l’io narrante, presumibilmente la scrittrice e la sua domestica Emerenc. La prima un’intellettuale con scarso senso pratico, assolutamente inadeguata al lavoro manuale e “domestico”, con un discreto margine di paure e di insicurezze, i suoi valori sono quelli tradizionali, le sue scelte un po’ retoriche e prive di coraggio. Poi c’è Emerenc, una figura di donna indimenticabile, un essere che vola alto nelle sue passioni come nelle sue miserie. Ruvida ma efficiente, misteriosa e magnetica, intimamente libera e coraggiosa, cinica ed insolente, capace di comunicare con esseri umani ed animali in modo viscerale ed autentico.
Pian piano, fra litigi e riappacificazioni, l’una impara a fidarsi ed affidarsi completamente all’altra, finché non interviene l’irreparabile…
Nel momento in cui la malattia allontanerà la povera Emerenc dal suo corpo e dalla sua mente, l’amica, credendo di fare il suo bene, nella speranza di salvarle la vita, ignora la promessa fattale, ma finisce così per provocarne la disperazione e la morte.
E’ la storia di un’amicizia… ed un tradimento o presunto tale, di tutte le contraddizioni, i dubbi, la sofferenza che comporta il farsi carico dell’anima di un altro essere umano, inevitabilmente diverso da sé.

Io e te, di Nicolò Ammaniti

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9 gennaio 2013

Nicolò Ammaniti, Io e te, Einaudi, 2010

di Amalia Mancini

“Io e te” non è un libro sull’amicizia, come “L’amico ritrovato” di F. Uhlman o “Le braci” di S. Marai, dove le vicende vedono implicate persone che si incontrano, condividono sentimenti ed esperienze, si ritrovano valutando i cambiamenti avvenuti nel tempo e le trasformazioni dei loro rapporti.
Io e te è invece un grido disperato di un adolescente che non riesce a stabilire legami normali con i suoi coetanei.
E’ una storia che trasuda malinconia, tristezza, ma la dice lunga sulla nostra società del benessere e sui disagi di chi cerca delle connessioni interpersonali che non siano legati al web.
Lorenzo, il protagonista di questo romanzo breve di Ammaniti, soffre dell’incapacità di essere come gli altri, di unirsi a quella chiassosa compagnia che sono i suoi coetanei.
La storia si svolge in una polverosa cantina dove si rifugia per una settimana per rendere verosimile una sua bugia. Qui Lorenzo si troverà di fronte a se stesso e ai suoi problemi, ma, poi, miracolosamente non sarà più solo.
La sua solitudine si unirà a quella della sorellastra, che conduce una vita bordeline, con un mare di problemi esistenziali irrisolti e irrisolvibili.
Fra loro nascerà una forte e intensa intesa, anche se dopo numerosi scontri e malintesi. Qualcosa che risulta parente stretta dell’amicizia.
Scopriranno che quella distanza, apparentemente insormontabile tra loro, sarà colmata dalla condivisione del loro dolore, del disagio di cui entrambi soffrono.
Così Lorenzo capirà quanto sia inutile nascondersi dietro le bugie, e quanto anche una polverosa cantina possa diventare il luogo ideale per riallacciare sentimenti, affetti, che, anche se per poco, ci fanno sentire meno soli.
Un’esperienza che lo aiuterà a maturare, a crescere, ad affrontare la vita e i silenzi che la accompagnano.
E’ per questo che “Io e te”, pur non essendo un libro sull’amicizia, è per l’amicizia, sul bisogno di essa, come confessa Lorenzo: ”… A me non mi avevano invitato …non ho amici… E volevo essere uno di loro”.

Libertà, di Jonathan Franzen

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17 novembre 2012

Jonathan Franzen, Libertà, Einaudi, 2011

di Elisa Cataldi

Un fiume in piena, una valanga di parole, di temi, di personaggi.
L’America raccontata in Americano da un Americano.
Un ritratto sarcastico ed impietoso dell’America dagli anni ‘70 ad oggi, fa da sfondo ad una saga familiare fatta di tante storie, tante intricate vicende, descritte tutte in un modo così dettagliato da risultare spesso esasperante. Horror vacui!!!
Peccato, perché in una narrazione tanto prolissa e dispersiva, sono comunque individuabili tematiche importanti ed analisi molto interessanti e condivisibili.
Il filo conduttore, come recita il titolo, è costituito dalle Libertà: libertà personali e libertà sociali e, se per quel che riguarda il sociale e politico siamo proprio in America, quando viene affrontato il nodo doloroso della famiglia, del vivere quotidiano, della difficoltà di operare delle scelte… ci siamo proprio tutti ed il romanzo assume un respiro universale.
I temi affrontati sono i più diversi: dall’ambiente alla sostenibilità, dall’incremento demografico alle risorse energetiche e poi l’11 settembre ed i “fondamentalismi gemelli” di Bush e di Bin Laden e quello che quell’attentato ha rappresentato per il senso dell’identità e dell’orgoglio nazionale americano. Ci sono le disastrose guerre in Iraq ed in Afghanistan e gli interessi che le sostengono, la questione ebraico – palestinese e soprattutto la corruzione seduttiva e dilagante.
Tutto questo è solo il paesaggio nel quale si dipana la difficile storia di una famiglia (con tanti, troppi annessi e connessi !) come tutte, molto imperfetta. Fragilità, errori, compromessi, sfide, tradimenti, ma anche accettazione, fiducia e… nonostante tutto, AMORE !!!
Il tutto nel classico stile americano sempre brillante, sagace, che non conosce pause, esitazioni, silenzi, pieno di frasi fatte e di modi di dire “rituali”, completamente svuotati di contenuto (…”va tutto bene!..” “…mia cara dolce Patty…” etc.)
E non manca neppure il “lieto fine all’americana” in perfetto stile Pretty Woman!
Peccato, perché invece la lettura, a fronte delle ben 620 pagine, è facile, fluida, perfino divertente.
Tutto sommato posso dire di essere molto contenta di aver letto un libro che, se non mi fosse stato consigliato, spontaneamente non avrei mai scelto di leggere!!!

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di Isa Bergamini

Un libro a tesi questo di Franzen e lo si sente da come scorre in modo minuzioso il racconto, quasi che non voglia lasciare vuoti che possano distrarre dalla dimostrazione che sta costruendo. Molti i fili, molti i piani del sentire e del raccontare. Una dettagliata descrizione di una famiglia americana di oggi, nelle cui dinamiche possiamo riconoscere storie e luoghi di libertà soffocate o conquistate così come avviene nella nostra esperienza.
Risulta evidente dalle pagine del libro, che la libertà è relativa ed alcune volte mimetizzata da falsi miti, lasciando così ad oscuri manovratori di utilizzarli per operazioni ingiustificabili e ciniche.
Molte le analogie di “Libertà” con “Il racconto d’inverno” di W. Shakespeare, che viene citato nell’esergo, dal confronto fra giovani e adulti, agli anni di assenza e di separazione della coppia, dall’inimicizia che scoppia tra vecchi amici, alla morte di una donna ed infine la conclusione pacificata finale anche se dolente.
Italo Calvino, nelle Lezioni Americane a proposito della Molteplicità, aveva scritto “…è il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo.” poi aggiungeva a proposito di Gadda citandone una pagina “ …egli vede il mondo come un sistema di sistemi, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato”.
Questa può essere la chiave di lettura di Libertà e di Correzioni di J. Franzen, ma anche di altri scrittori americani.

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di Vanda Morano

Trama ricca e complessa che forse andava un po’ “perimetrata”. Il romanzo è comunque una grandiosa epopea multigenerazionale, è la rappresentazione di un tumulto sociale e psicologico nell’America contemporanea. Storie individuali, trascurabili biografie, camminano in parallelo alla ‘grande storia’ e passano tutte attraverso dure verifiche. I personaggi sono monadi infelici alla ricerca di una difficile comprensione esterna. Tutti si misurano con le proprie scelte, con la propria libertà in un percorso di difficile riconciliazione con il proprio vissuto. Le vicende scivolano avanti e indietro tra digressioni e flash back. La memoria, spesso dolente, è macigno sul presente è qualcosa con cui bisogna fare i conti.
Walter e Patty, coniugi politicamente corretti, vivono una quieta quotidianità, in un mondo esemplare ma il loro ’sogno americano non sopravvive alla contestazione del figlio che vuole reinventare il mondo allontanandosi dalle attese dei genitori e al tradimento di Patty che va a letto col migliore amico del marito. Il romanzo si chiude con una ricomposizione finale che non è però un happy end. I personaggi non vanno più all’assalto del mondo, restano in piedi ma procedono con un bagaglio di occasioni perdute, con i fantasmi degli affetti dispersi. Si avverte un senso di minaccia: la vita è fragile, la libertà è catena e non coincide con la felicità.

Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar

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18 giugno 2012

Margherite Yourcenar,  Memorie di Adriano, ed. Einaudi, 1963

di Amalia Mancini

Libro unico e irripetibile. Fonte di saggezza e conoscenza. E’ da leggere e rileggere, difficile da raccontare.
In questo testo l’uomo e l’imperatore si mescolano sullo sfondo della storia, che è storia antica, ma anche contemporanea.
L’effluvio del sentire e dell’essere di Adriano si espande nel romanzo come il quieto infrangersi delle onde sulla battigia.
Lentamente viene fuori il personaggio che la storia tramanda, l’imperatore sapiente, saggio che sa amministrare giustizia e pace, ma sa anche punire.
E’ un uomo che ama. Sa amare gli uomini, il bello, la natura, le stelle, il vento, la quiete, ma anche la caccia, dove forza e intelligenza prevalgono insieme alla sagacia. Soffre e fa soffrire. Cade, ma sa risollevarsi. E’ un combattente, non disdegna lo scontro, non si tira indietro mai di fronte al nemico. Rispetta la fierezza del suo avversario, la scaltrezza, ma non indugia, non ritrae la sua daga, se è questo che deve, che è giusto. Ma non infierisce. La sua vita è un modello di esistenza all’insegna dell’uomo, che lui raffigura nel pieno significato della parola. Simbolo di un tempo che non è più, ma che potrebbe sempre essere, ha vissuto in un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo. Ci insegna a vivere, ma anche a morire.
Sa che tutto ha un tempo, sa qual è il suo. Sa anche come uscire di scena dignitosamente, da imperatore. Lo accompagnerà la sua animula blandula, compagna inseparabile, insieme, a occhi aperti, varcherà i confini del finito per affrontare la morte.

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di Elisa Cataldi

“un dono necessario per morire in pace, un’immagine della mia vita quale avrei voluto che fosse, perché… quello che conta non è quello che compare nelle biografie ufficiali, o che si scrive sulle tombe… l’avventura della mia esistenza acquista così un suo senso riposto, si compone in un poema. L’unico amore si svincola dal rimorso, dall’impazienza, il dolore si distilla, la disperazione si fa pura. Arriano mi schiude il profondo empireo degli eroi e degli amici: non me ne giudica indegno”Questo è il ringraziamento che Adriano fa all’amico Arriano, ma anche – se possibile – a Marguerite Yourcenar.

Quale essere umano non desidererebbe che una M. Y. raccontasse la propria vita con tanta sensibilità, tanta immedesimazione, con l’amore ed il rispetto con i quali ha raccontato la vita di Adriano?! Eh sì, perché l’operazione che fa la Scrittrice è di vivere nei panni di Adriano, di calarsi nella sua vita, interpretarla e raccontarla come se fosse la propria, ma è il vissuto, sono le riflessioni della Yourcenar che vengono attribuite ad Adriano! Perché proprio a lui? Perché non ad un altro personaggio? Perché l’enorme mole di studi ha riguardato proprio Adriano, che la scrittrice fa assurgere al ruolo di innovatore, un imperatore capace di governare un enorme Impero con un equilibrio nuovo, con… Umanità, Libertà e Giustizia.

“Quando gli Dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marc’Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, … solo! Avrei trascorso gran parte della mia vita a cercare di definire e poi di descrivere, quest’uomo solo e, d’altro canto, legato a tutto (da una lettera di M.Y. a Flaubert)
Un uomo solo e un uomo libero (“un Ulisse senza Itaca che quella interiore”). Il libro inizia e si conclude con quella bellissima poesia di Adriano, che finisce… “cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti”.
Ma non solo nella morte, la Yourcenar entra con gli occhi aperti (e lo fa mirabilmente), bensì in ogni situazione, in ogni stato d’animo, in ogni emozione !
La paura, la gioia, il potere, il dubbio, l’amore, la morte, la disperazione, la tenerezza, l’amicizia, … La scrittrice ha questa meravigliosa capacità di penetrare all’interno dell’animo umano, di conoscerlo. ..col cuore (non fredda analisi, ma conoscenza affettiva) e quindi di motivare scelte e comportamenti fino a rendere un Imperatore… un UOMO. “…ero Dio semplicemente perché ero uomo…”

Sonata a Kreutzer, di Lev Nicolaevic Tolstoj

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30 aprile 2012

Lev Nicolaevic Tolstoj,  Sonata a Kreutzer, Feltrinelli 2011 

di Antonella De Maio

Un testo passionale e forte, straordinariamente attuale per l’analisi della visione degli uomini sulle donne e delle donne su loro stesse. La progressione del racconto dell’uxoricida è in perfetta sintonia con la sonata di Beethoven, con la sua incalzante sonorità. Ricorre in questo romanzo il tema della musica come metafora della sensualità e delle più intime pulsioni femminili (si pensi al film di Jane Champion “Lezioni di piano”) che vengono intercettate da un soggetto altro dal legittimo consorte. C’è tutto il mondo di Tolstoj dentro questo romanzo, con tutte le sue contraddizioni ed i suoi atti d’accusa contro le istituzioni. Tolstoj era un misogino che amava le donne, mi si perdoni l’ossimoro, ma traspare da tutti i suoi scritti, compreso questo. L’attrito coniugale nasce da un equivoco di fondo che vale per i protagonisti del romanzo, ma anche in generale: l’uomo si sposa per il bisogno di creare una famiglia, la donna si sposa per il bisogno o la speranza di trovare l’amore.

Il film “Quale amore”, pur essendo trasposto nella nostra contemporaneità, è molto fedele al romanzo, con una fotografia dai colori lividi, come la gelosia del protagonista. E’ privo dell’ironia di Tolstoj, ma è pieno di compassione per l’angoscia dell’uomo che si tormenta per non avere il possesso totale della moglie.

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di Amalia Mancini

Quello che colpisce di questo libro è l’inspiegabile vigore che emana ogni sua pagina. E’ un crescendo di forza che vessa Podnysev rendendolo schiavo della violenza. Eppure non è un libro violento, anzi. Forse quello che manca è proprio un po’ di pietà, la pietas. I sentimenti che muovono il protagonista de “La sonata a Kreutzer” sono intrisi di una grande forza drammatica. Ci si trova di fronte a un “insaziabile odio-amore carnale che si svolge tra due egoismi di segno sessuale opposto”.

Domina su tutto il romanzo la carnalità che Tolstoj attribuisce a “un eccesso di cibo inghiottito” che defluisce poi nel sesso.
Le donne, secondo l’autore, “vivono degli stessi interessi delle donne delle case di tolleranza”. La libertà della donna consiste pertanto “… nell’avere il diritto di servirsi del maschio e di astenersi da esso secondo il proprio desiderio, di scegliersi il maschio…”
L’intero romanzo si muove in questo travagliato rapporto uomo-donna, marito e moglie.
Il treno fa da cornice, con il suo incessante sferragliare, a questo erompere vulcanico di Podnysev, che riporta con ardore il pensiero integralista dell’autore facendone quasi una teoria sociologica. Qualcuno ha detto che Tolstoj voleva solo fare un appello a una maggiore purezza dei costumi…
Siamo indubbiamente lontani da una visione moderna della donna e dei rapporti di coppia, anche se le problematiche messe in discussione sono attuali, attualissime, come l’epilogo della vicenda che sfocia nell’uxoricidio.

Il confronto con la realtà odierna non ci consola. Registriamo purtroppo un delirante incremento di delitti contro le donne, di uomini che odiano le donne.

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di Isa Bergamini

Grande la tragica attualità di questo libro, per questo riporto una parte del testo sottoscritto in questi giorni da molte donne e molti uomini.

“Mai più complici”

Cinquantaquattro. L’Italia rincorre primati: sono cinquantaquattro, dall’inizio di questo 2012, le donne morte per mano di uomo. L’ultima vittima si chiama Vanessa, 20 anni, siciliana, strangolata e ritrovata sotto il ponte di una strada statale. I nomi, l’età, le città cambiano, le storie invece si ripetono: sono gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Le notizie li segnalano come omicidi passionali, storie di raptus, amori sbagliati, gelosia. La cronaca li riduce a trafiletti marginali e il linguaggio le uccide due volte cancellando, con le parole, la responsabilità. E’ ora invece di dire basta e chiamare le cose con il loro nome, di registrare, riconoscere e misurarsi con l’orrore di bambine, ragazze, donne uccise nell’indifferenza. Queste violenze sono crimini, omicidi, anzi FEMMINICIDI. E’ tempo che i media cambino il segno dei racconti e restituiscano tutti interi i volti, le parole e le storie di queste donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace di accettare la loro libertà.

Comitato promotore nazionale Senonoraquando, Loredana Lipperini, Lorella Zanardo-Il Corpo delle Donne

Lolita, di Vladimir Nabokov

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31 marzo 2012

Vladimir Nabokov, Lolita, Adelphi, 1993

di Elisa Cataldi

Romanzo avvincente, scanzonato, imprevedibile! Sei lì che ti godi una scrittura frizzante, arguta, accattivante, ti ritrovi a sorridere di questo Humbert Humbert divertente, ironico ed autoironico, machiavellico quando…. ti soffermi un attimo e ti rendi conto che si sta parlando di vera e propria perversione sessuale, di pedofilia, di situazioni pesantissime e molto dolorose. Ma non riesci a provare la dovuta indignazione!
E’ la storia di un amore malato fra un 40enne europeo ed una 12enne americana: l’ossessione sessuale di un uomo mentalmente disturbato per una “ninfetta” perfida, bugiarda, calcolatrice.
Ma… chi è la vittima? Chi è il colpevole?
Sia H. H. che Lolita hanno conosciuto la mancanza di amore: lui perché la madre è morta colpita da un fulmine quando era molto piccolo. Lei, perché la madre con la quale vive da sola dopo la morte del padre e di un fratellino, appare un po’svampita e non mostra alcuna vera attenzione per questa ragazzina che sta diventando donna a modo suo, senza esempi né regole. Questo basta a giustificare? Certamente no, però… Humbert Humbert è un impostore, un mistificatore, pensa di condurre il gioco fin dove vuole, grazie ad espedienti e ricatti. Pensa di amare Lo alla follia, ma non c’è nessun amore, nessun rispetto, nessuna compassione, neanche la stima né per lei, né per nessuna altra donna: tutte le sue fantasiose macchinazioni hanno l’unico fine di usarla per soddisfare la sua ossessione.
Ma la tela di ragno che le costruisce intorno, finirà per inglobarlo e per distruggerlo.
Alla fine proverà la gelosia più morbosa: il suo giocattolo è stato carpito da qualcun altro (Claire Quilty) e lui non può sopportarlo perché Lo era un suo possesso e per questo…arriverà ad uccidere e finire i suoi giorni in galera.

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di Antonella De Maio

Un libro ben scritto/tradotto, pieno di ironia e di citazioni letterarie mai esplicite, disseminate qua e là (ne ho trovate di Shakespeare e di Dostoevskij). Colpisce la misoginia di Humbert, soprattutto quando parla di Charlotte “Lei mi nuotava accanto, otaria goffa e fiduciosa.” p.113. Direi che la scrittura rivela un certo gusto cinematografico nel descrivere le situazioni, si pensi al passaggio della morte di Charlotte: i lettori l’hanno lasciata in lacrime nel salotto, mentre scrive delle lettere dopo aver letto il diario di Humbert ed ecco che squilla il telefono e, con un colpo di scena, i lettori apprendono che Charlotte è riversa sull’asfalto, morta dopo essere stata investita da un uomo che assomiglia a un babbuino. Che dire poi del sarcasmo, ai limiti del cinismo, di alcune descrizioni, tipo quella del rozzo Charlie “…che aveva il sex appeal di una carota cruda..” p.174?

Per quel che riguarda il film, bisogna considerare che il regista, così come il traduttore, reinterpreta il testo a cui si ispira, fino a farne un’opera indipendente. Solo se si adotta questo punto di vista si può apprezzare il bianco e nero della pellicola; il non detto adeguato al 1962, anno dell’uscita del film; la scelta di Sue Lyon per la parte di Lolita, odiosa e scialba sì, ma perché non doveva essere troppo bambina (del resto anche nella versione del 1996 la Swain/Lolita era già troppo donna per quel ruolo). Usare un minore in un film è cosa molto più delicata che dipingerlo, come faceva Balthus nei suoi quadri: lui sì che si poteva permettere di mostrarci delle vere Lolite, maliziose e provocanti, anche in pose esplicite e sguaiate. Un po’ come qualche quadro di Tamara de Lempitcka che ritrae sua figlia con i calzini bianchi bene in vista e lo sguardo sognante.

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di Emanuele Triggiani

La mia rilettura (dopo 50 anni) del libro di Nabokov mi ha suscitato un primo senso di entusiasmo per la squisita sensibilità dimostrata nel cogliere e descrivere le sensazioni emotive della pubertà. Proseguendo nella lettura ho, tuttavia, avvertito la limitazione dell’angolo visuale, ristretta al sentimento esclusivamente maschile, mentre del tutto ignorato è il sentimento dalla visuale femminile (La ninfetta appare solo come immagine inerte, priva di spiritualità). L’opera diviene quindi solo una minuziosa, maniacale e un po’ monotona “dissezione” di un rapporto malato. Così come in un’autopsia viene estratto ed analizzato ogni organo e descritte le sue condizioni alla ricerca dell’elemento patologico e senza alcun riferimento alle condizioni spirituali ed emotive di un corpo. Quanto al finale… mi è parso un mero espediente per un epilogo da “film giallo”.

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di Isa Bergamini

“Lolita, light of my life, fire of my loins. My sin, my soul. Lo-lee-ta: the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.
She was Lo, plain Lo, in the morning, standing four feet ten in one sock. She was Lola in slacks. She was Dolly at school. She was Dolores on the dotted line. But in my arms she was always Lolita.”
L’incipit di Lolita, poesia che annuncia un libro poetico e struggente. Humbert Humbert racconta la sua versione di quel che è successo e racconta storie difficili di morti, di prigionia, di disprezzo, di infelicità, di possesso presentato come amore, stabilendo con il lettore però un rapporto di complicità in una pagina, quella del suo diario, che irretisce con una scrittura complessa, sapiente, ricca di colti rifermenti letterari e visivi e poi soprattutto con un’ironia che ferisce dove punta.
Leggendo impariamo a conoscere Humbert Humbert, ma Lolita resta a noi chiusa tra i fili che quel ragno tesse intorno a lei. Lolita è sottratta alla sua vita normale di adolescente, ai suoi compagni, ai suoi giochi anche a quelli erotici fra coetanei. Lolita è infelice, piange tutte le notti e non ha voce per raccontare.
Il libro ha fatto paura a molti quando Nabokov lo aveva scritto, l’accusa di pornografia, in realtà non esistente nel testo, era solo un pretesto, forse c’era solo la paura di riconoscersi in Humbert Humbert.

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di Amalia Mancini

Questo libro, che leggiamo ancora con interesse e ammirazione, a distanza di oltre 60 anni dalla sua pubblicazione, non finisce mai di stupirci.
E’ la storia di un singolare amore tra un quarantenne di origine europea e una dodicenne americana. La evidente differenza di età ha scandalizzato e continua a scandalizzare alcuni. Ma non è un romanzo per pedofili. E’ molto di più. E’ un romanzo d’amore, di un amore impossibile, malato.
Lolita, la protagonista, è paragonata da Humbert Humbert a una “ ninfetta”. Chi amava, nella cultura classica, le ninfe era punito a sprofondare nella follia e perdeva se stesso, la propria lucidità.
Così accade a Humbert. Cercherà di possederla, ma quando ci riuscirà, Lolita fuggirà via, più inafferrabile dell’acqua a cui le ninfe appartengono.
Lolita è comunque un mistero: ambigua, enigmatica, bugiarda, falsa, superficiale. Sembra essere lei la regista di tutto il complicato intreccio, anche se Humbert non ne sarà mai consapevole, se non alla fine. Eppure ha solo dodici anni.
Nabokov ha affermato che Lolita rappresentava l’America, mentre Humbert l’Europa.
E lui è l’Europa che ama la giovane America.
E’ l’America degli anni cinquanta che emerge con la sua provincia, gli alberghi, motel, ristoranti, centri commerciali, cinematografi. C’è sarcasmo nella descrizione delle donne americane, delle loro abitudini di vita, delle loro pruderie come se fossimo di fronte alla Commedia umana di Balzac.
Tutto il testo è pervaso dall’ironia celata o manifesta di Nabokov, che annota scrupolosamente ogni particolare da bravo entomologo quale era.
Nabokov ci regala nel finale una lezione di vita da non dimenticare: “Penso… al rifugio dell’arte. E questa è la sola immortalità che tu e io possiamo condividere, mia Lolita.

Il treno, di Georges Simenon

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24 febbraio 2012

Georges Simenon, Il Treno, Adelphi, 2007

di Antonella De Maio

Di questo romanzo mi ha colpito la figura di Marcel, quello che si potrebbe definire un buon padre di famiglia, di salute cagionevole, un uomo mediocre che sa di essere in credito di emozioni con la vita. Quando lascia in fretta la sua casa tranquilla sotto la minaccia dell’avanzata dei tedeschi, sa che quell’evento straordinario è un appuntamento con il destino. Incontra Anna, donna silenziosa e passiva, passionale e misteriosa che non esplicita mai le sue emozioni e ogni volta che tenta di farlo, Marcel la zittisce. Di grande sensualità il passaggio in cui Anna si toglie le mutandine e si offre con naturalezza a Marcel nella promiscuità del vagone. Di tutta quella passione e quell’audacia Marcel sente l’esigenza di volere darne conto solo al suo figlio maschio, quasi a volergli lasciare un’eredità virile che il ragazzo mai avrebbe sospettato nel padre. Ma è proprio il rifiuto di aiutare Anna che chiude quella storia così intensa nella parentesi di un uomo mediocre, appunto.
Quanto al film, non condivido il finale melodrammatico e inventato, ma nel complesso l’ho trovato gradevole e con la scelta dei due attori protagonisti molto adeguata ai personaggi. Come sempre, per non farsi venire l’ulcera, bisogna considerarla come un’opera a sé stante, senza mai dimenticare il “liberamente tratto da…”

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di Amalia Mancini

Il romanzo ti prende subito. Ti ritrovi insieme al protagonista in questa fuga contro il pericolo che incombe, la morte che ti insegue.
Comprendi come tutte le certezze possano crollare e tutto intorno a te sia provvisorio. Sei di fronte all’imprevedibile e non hai più il controllo della tua esistenza. Sono solo uomini e donne che si cercano nella solitudine della precarietà.
Anche il tempo non esiste più, come i legami familiari. Esiste l’ora, l’adesso, il sentire, il fremere.
E l’amore? E’ per sempre, perché il sempre è ora, adesso. La quasi certezza di una prossima fine traduce ogni attimo che si vive nel più importante e significativo, proprio perché potrebbe essere l’ultimo.
Di questo libro trovo sorprendente l’incedere cadenzato e lento della scrittura, simile ai treni di una volta.

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di Elisa Cataldi

1940: i Tedeschi stanno per invadere la Francia. La popolazione fugge come può. Marcel, con la moglie incinta e la bambina, riescono a prendere un treno, ma mentre queste vengono sistemate su un vagone viaggiatori, lui si deve accontentare di un affollato e sporco carro bestiame. Qui arriva una giovane donna schiva e misteriosa, con la quale ben presto nasce un rapporto prima di amicizia e di confidenza, poi di profonda intesa anche sessuale.
Lui vive tutto ciò come un dono del destino, un miracolo inatteso ma profondamente sperato, capace di movimentare la sua troppo banale quotidianità. Lei si innamora profondamente e dà tutta se stessa in questo rapporto che la fa sentire viva e pulsante, lei che si porta la morte nel cuore!
Marcel non soffre più di tanto né per aver perduto moglie e figlia (il loro vagone non è più attaccato al treno), né per la guerra, vissuta da lui come un’opportunità per fingersi altro da sé.
La storia avrà un epilogo drammatico.
Simenon ci racconta la guerra, ma più che questa, che fa solo da sfondo, ci descrive quella sua umanità fatta di gente piccolo- borghese, mediocre, senza qualità, alle prese col destino, il libero arbitrio, il dolore.

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di Isa Bergamini

L’io narrante è Marcel. Il protagonista? In realtà la protagonista è Anna Kupfer, una giovane donna nella guerra, che però non se ne lascia travolgere. Nella storia Anna vive tutta la sua vita in modo totale, senza compromessi, ma ad occhi aperti e con tutta la sensibilità ed intelligenza che il suo corpo di donna sa farle vivere, dall’amore alla lotta partigiana. Nel treno dei profughi, la capacità di adattarsi, di piantare radici, di costruire una nuova storia cresce e da una frattura della propria vita ci si adatta sommessamente ad una nuova dimensione. Certo, questa è una grande, miracolosa capacità che mette in salvo nei momenti di emergenza, senza bisogno di psichiatri.

La luce nei libri di Simenon per lo più non è mai luminosa, ma in questo libro, quando il treno arriva nella Vandea, Marcel, che viene dalle Ardenne, non può non notare “…avidamente il sole… ed assaporare ogni sfumatura di luce…”e nel porto della Rochelle dire “… Presi immediatamente possesso del paesaggio, che mi entrò nella pelle”. Così il momento straordinario della sua vita, che sta raccontando, è accompagnato anche dal paesaggio e dalla luce. Il ritorno a casa di Marcel, dove ogni cosa è rimasta come prima della partenza, gli oggetti, nel loro grigiore quasi specchio degli affetti, e soprattutto il ricomporsi del quadro familiare, potrebbero far pensare alla coppia di “Due” di Némirovsky, ma poi il proposito di lasciare la testimonianza di una passione esclude il riferimento, perché dà un filo di speranza al rispetto che ognuno deve avere per la propria vita.

Leggendo queste pagine di Simenon resta sospesa anche una domanda: se oggi ci trovassimo in una situazione simile a quella di Marcel e della sua famiglia o comunque in uno stato di guerra, qui oggi nella nostra casa, nella nostra città, nel nostro Paese, resteremmo fermi ad aspettare l’inevitabile o fuggiremmo e che cosa porteremmo con noi? Sceglieremmo oggetti indispensabili, per vivere e comunicare o ricordi, storia personale o cibo per la sopravvivenza ed acqua? Cellulare, caricabatteria e computer innanzi tutto? Avremmo la lucidità di pensare anche per l’altro che è con noi?

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di Vanda Morano

Marcel è un uomo qualunque che apprezza la routine indisturbata del quotidiano (routine preziosa perché conquistata a fatica dopo un’infanzia infelice e un’adolescenza infestata dalla malattia), ma nasconde un segreto: in un tempo lontano la sua vita ha subito una svolta importante. Scrive di nascosto i suoi ricordi spinto dalla nostalgia per quello che è stato e non è più, per lasciare ai suoi figli un’altra immagine di sé, per indicar loro anche la via per una possibile redenzione. Nel 1940 l’invasione tedesca nelle Ardenne costringe Marcel con la moglie incinta, una figlia e i bagagli a fuggire con altri profughi. Da quel momento gli eventi decidono per lui: si trova su di un carro bestiame separato dalla moglie incinta e dalla figlia. Libero dal peso della famiglia, incontra una donna ‘in nero’, docile e appassionata. In un clima di precarietà generale, l’avvenire non lo preoccupa, smonta le sue certezze e le sue sicurezze “non avevamo più responsabilità, iniziative da prendere. Niente dipendeva da noi, neppure il nostro destino”. La passione tra lui ed Anna fluisce spontanea e senza pudore e si rafforza anche nelle afasie e nei silenzi. E’ un ritorno alle sensazioni forti dell’infanzia. E’ una storia senza passato e senza avvenire. Alla fine dell’emergenza, Marcel ritrova la moglie che nel frattempo ha partorito e riprende la vita dal punto in cui l’aveva lasciata, in una piatta quotidianità che sfocia in una letargia dei sentimenti e infine anche nella vigliaccheria.

Personaggio grandioso nella sua ‘piccolezza’. Simenon indaga sulle oscurità dell’animo umano usando le parole con misura, evitando il rischio del superfluo: le emozioni forti, le passioni, le crudeltà, le banalità, le fragilità si stemperano in uno stile asciutto ed essenziale.

Il giardino segreto, di Frances E. Hodgson Burnett

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3 febbraio 2012

Frances E. Hodgson Burnett, Il giardino segreto, Giunti Junior, 2011

di Amalia Mancini

Questo libro mi è piaciuto proprio per il tema che tratta. Fu pubblicato nel 1909 da Frances Burnett e stranamente, anche se parla di buoni sentimenti non fu accolto molto calorosamente dal pubblico. Perché? Perché sconvolgeva i temi classici dell’educazione. Esponeva una tesi da considerarsi allora rivoluzionaria.
Là dove gli adulti non sono presenti, è il caso del romanzo, bambini e ragazzi riescono ad educarsi da soli. L’amicizia li aiuta a evolvere in positivo i loro caratteri e comportamenti, liberandosi dai pregiudizi artatamente assimilati dai grandi, che risultano di fatto assenti, sia fisicamente, che sul piano affettivo. Nell’allestimento del loro giardino segreto crescono e maturano in loro la speranza di un futuro migliore e di solidi rapporti. La vita all’aperto favorisce un corpo sano, un buon equilibrio interiore e sicurezze comportamentali, oltre che il rispetto e l’amore per la natura. Temi attuali e condivisibili anche oggi, come ho potuto riscontrare dalla mia esperienza personale.
Fluida e gradevole la scrittura, lettura consigliabile a ragazzi e adulti.

Il peso della farfalla, di Erri De Luca

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1 febbraio 2012

Erri De Luca, Il peso della farfalla, Feltrinelli, 2011

di Amalia Mancini

Il testo di Erri De Luca “Il peso della farfalla” ci offre non poche riflessioni sulla vita. E’ una metafora sull’uomo, sulla sua presunzione, sull’errato rapporto tra lui e la natura.
Il suo stile è leggero, tanto che ci sembra , leggendolo, di volare sulle ali di una farfalla e insieme a questa, umile, ma fondamentale co-protagonista, sorvolare la triste storia del cacciatore e del camoscio.
La scrittura di De Luca ci restituisce tutti e cinque i sensi che siamo obbligati ad utilizzare per entrare nello spirito del racconto.
Sentiamo i profumi del bosco, del muschio umido di pioggia, l’odore dell’uomo e del suo infernale fucile, il sapore delle radici o quello del ”ciuffo di cima”, oppure il calore delle unghie degli zoccoli.
In questa sapiente commistione di sensi si dipana la storia che vede protagonista un uomo, triste e solitario e il re dei camosci, suo ambito trofeo.
Il camoscio lo sa, conosce le regole, si difende con arguzia, da re riconosciuto e stimato dalla sua comunità, con regalità impartisce al cacciatore e a noi tutti una significativa lezione.

Perfino una farfalla ha il suo peso nella storia!!!

Due, di Irène Némirovsky

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31 gennaio 2012

Irène Némirovsky, Due, Adelphi, 2011

di Michele De Ruggieri

Bellissimo inizio! Si ha subito l’impressione che la Némirovsky voglia entrare nell’animo dei giovani, in particolare di quelli del 1920 sopravvissuti alle trincee, ragazzi che hanno una sola voglia: quella di godersi ogni cosa, di vivere senza timore i loro amori, cercando di non lasciarsi soffocare da quello che è accaduto.
Antoine, Marianne, Solange, Dominique e per ultimo Gilbert mi sono sem-brati nelle prime battute cinque anime, felici di vivere la vita giocando con l’amore. Qui il mio pensiero è andato alle dolci e seducenti canzoni di Édith Piaf e soprattutto ho pensato e Jaques Prévert delle Les Feuilles mortes e ai versi di Alicante, Questo amore, Barbarà, Paris at night. Quando il racconto introduce la famiglia Carmontel e poi quella dei Segrè, il palcoscenico si riempie a tal punto da farmi credere che il racconto sarebbe stato intenso per personaggi ed eventi.
Purtroppo la mie attese sono state deluse già dopo una quarantina di pagine perché tutto si è risolto, a mio parere, nel racconto del triste e noioso matrimonio di Antoine e Marianne che ha come filo conduttore la domanda che si pone Dominique (pag 31), “Come avveniva, nell’unione coniugale, il passaggio dall’amore all’amicizia? Quando si cessava di tor-mentarsi l’un l’altro per volersi finalmente bene?”
I componenti della famiglia Carmonten e Segrè entrano in scena di tanto in tanto senza nulla apportare al racconto ad eccezione della tormentata e intensa Solange. Certo le riflessioni sul matrimonio della Némirovsky sono a volte interessanti ma finiscono per essere ripetitive un poco pia-gnone e in più occasioni opinabili.
Una storia raccontata certamente bene ma noiosa e soprattutto senza identità storica e mai in contatto con la realtà. I personaggi sono chiusi nello spazio del loro vivere di ricchi borghesi. Il mondo esterno, gli eventi sociali, politici degli anni venti sono ridotti a pochi insignificanti citazioni. Il racconto si svolge a Parigi ma potrebbe andar bene a qualsiasi latitudine. La Némirovsky solo ultimissime pagine ha risvegliato la mia attenzione, quando dice: queste parole mi hanno riportato all’inizio del racconto: “Si baciavano. Erano giovani”. Troppo poco per dire che questo Due mi abbia preso e mi sia piaciuto.

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di Vanda Morano

Straordinaria storia di un rapporto a ‘Due’ dinamico e faticoso, spesso devastante che approda ad una solida amicizia.
Parigi anni ’20. La guerra e le terribili esperienze di trincea sono alle spalle, il presente in una realtà alto-borghese ha una dimensione ludica, il futuro è poco chiaro.
La liaison tra Antoine e Marianna nasce con dolorosa leggerezza ma, quando sfocia nella progettualità e diventa stabilità, perde l’entusiasmo. Se si è giovani rimane comunque l’urgenza di un riscatto, di una rigenerazione, non è possibile rinunciare alla passione, quello che è negato da un legame consolidato sfocia comunque nella clandestinità con una forza ed una violenza anche distruttiva. Antoine ha con la giovane cognata una relazione esaltante perché clandestina e senza speranza. Questa esperienza scardina le sue certezze ma le rimonta subito dopo: il rapporto con la moglie è tiepido ma importante e irrinunciabile.
Rientra quindi nel mondo delle ovvietà e delle necessità quotidiane. In fondo l’amicizia e la condivisione sono più importanti della passione“. La passione sembra un dono di Dio, troppo bello per essere vero. Si sente che Lui ce la concede solo per un certo tempo; una cosa così, invece, è tutta nostra… conquistata a fatica accumulata lentamente, distillata come un miele”.

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di Elisa Cataldi

E’ la storia di “un matrimonio”. L’ambiente è quello borghese di inizio secolo, che risente dei danni materiali e morali della guerra appena finita.
L’analisi dolorosa e disincantata riguarda tutta la gamma dei sentimenti possibili: l’amore, la sofferenza, l’egoismo, la crudeltà…
E’ il realistico racconto del passaggio dalla precarietà del piacere, dalla vulnerabilità di una passione, alla rassicurante spesso ipocrita stabilità del matrimonio.
Il percorso è disseminato di intrecci di coppie con risvolti talvolta anche tragici.
C’è tutto quello che porta DUE persone a diventare una coppia.
“…uniti erano invincibili, separati erano i più deboli degli esseri umani”.
“…l’ebbrezza triste e folle dell’amore” che si trasforma nella sconfitta-vittoria di un rapporto coniugale cementato dall’abitudine, dal silenzio, forse da un certo tipo di complicità.

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di Isa Bergamini

Fa pensare al “Girotondo” di Artur Schnitzler. Il tempo è diverso, l’uno scrive il tempo che precede la prima guerra mondiale, alle soglie quindi della fine dell’Impero Austro-Ungarico e Nèmirovsky il tempo dopo quella guerra; comunque le coppie da loro raccontate sono di una società in crisi.
Tanti sono i “Due” in questo libro oltre ad Antoine e Marianne, ma è come se le coppie sulla scena si staccassero dal fondale ed in primo piano fossero sotto intense luci ad occhio di bue. Due sulla scena, ma ognuno chiuso ed isolato nella sua luce. Così si oscura il fondale e naturalmente il contesto generale e l’interazione dei personaggi con il resto della società di quel tempo ed in quel luogo.
C’è una grande malinconia per l’equivoco e l’impossibilità di capirsi, la prevaricazione per la gelosia, la sopraffazione per la superiorità sociale, l’infelicità per la condizione dell’impossibilità di vivere il proprio amore di Antoine ed Evelyn.
Una scrittura asciutta, essenziale in una pagina dove i protagonisti delle coppie non si scontrano, ma si esibiscono in splendidi abilissimi incontri “a fil di fioretto”.

I pesci non chiudono gli occhi, di Erri De Luca

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31 gennaio 2012

Erri De Luca, I pesci non chiudono gli occhi, Feltrinelli, 2011

di Michele De Ruggieri

In questo romanzo l’autore, racconta la storia di un ragazzo di dieci anni costretto a vivere da adulto in miniatura in una città come Napoli. Arriva fortunatamente per lui una lunga estate trascorsa nell’isola d’Ischia, fra gli affetti familiari della madre e della vulcanica sorella, l’attesa di un padre lontano e soprattutto l’innamoramento sotto l’ombrellone di una ragazzina del Nord la quale lo tirerà fuori in quel poco tempo estivo e assolato dal bozzolo di bambino. Fra barche, pescatori, grandi nuotate, violente zuffe con invidiosi coetanei scorre un fil rouge che pagina dopo pagina legherà sempre più le due creature quasi fossero novelli Adamo e Eva fino a quando, come dice De Luca nelle ultimissime battute “le bocche si trovarono accanto e inventarono il bacio, il primo frutto della conoscenza”.
A pagina 10 sono stato quasi ipnotizzato dalla seguente riflessione: “Avevo raggiunto i dieci anni, un groviglio d’infanzia ammutolita. Dieci anni era traguardo solenne, per la prima volta si scriveva l’età con doppia cifra. L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo fero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio……..”
Come prima considerazione dico che De Luca è stato molto bravo a comunicare anche attraverso i sensi: l’odore di salsedine pervade continuamente lo scorrere delle pagine insieme alla luce estiva che dall’ombra degli ombrelloni sulla spiaggia si allunga sulle barche dei pescatori in attesa di uscire per la pesca notturna. E poi ancora i sapori estivi dei ghiaccioli o il piacere di toccare il mare, la sabbia e più di tutto la calda pelle di una mano di donna-bambina. E che dire poi dei suoni estivi uno per tutti l’indimenticabile sonoro diffuso nel silenzio della sera dalle pellicole delle arene cinematografiche?
Detto ciò aggiungo che mi è molto piaciuta la costruzione della storia che va avanti in un continuo contrasto direi dicotomico: infanzia ed età adulta, innocenza e consapevolezza , violenza e mitezza, città e mare, maschio e femmina. Il questo gioco il ragazzo ha la consapevolezza di chi sa di dover fare delle scelte e lo fa con la saggezza di adulto. Sceglie quindi la madre che resta a Napoli rispetto al padre che tenta un’emigrazione sospetta di fuga, i pescatori rudi ma buoni di fronte ai borghesi urbani, il mare e il sole limpidi in contrasto con le oscurità imputridite di una città corrotta.
Un gran bel racconto che non rivela nulla di più, se non quello di cui si legge. Posso dire in conclusione di aver apprezzato questo “I pesci non chiudono gli occhi” come adulto e soprattutto come il bambino che fui con tutte le scoperte, i turbamenti drammatici di quel tempo. Durante la letture mi sono spesso fermato a pensare, lasciandomi trasportare in luoghi e tempi lontani con la convinzione che De Luca abbia voluto raccontarmi le cose di cui avevo bisogno.

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di Elisa Cataldi

Poesia pura, ma…in prosa. Da leggere piano, e poi rileggere per lasciarsi permeare dalle suggestioni, dalle emozioni, dai ricordi.
Il percorso di crescita di un bambino di 10 anni è l’occasione per affrontare temi universali che riguardano tutti, a tutte le età. Crescere vuol dire dolore, anche fisico e, viceversa, il dolore ci fa crescere.
Ed ancora, quel certo senso della giustizia che….” Non c’è giustizia senza pietà per l’offeso “. E poi assistere alla trasformazione di questa indignazione da privata a collettiva: è la ribellione condivisa, quella che…” il peso e la vastità del NOI sgomentava i poteri” e tanto, tanto altro su cui riflettere con la mente, ma soprattutto da sentire….col cuore!

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di Antonella De Maio

Quanto alla lettura del romanzo “I pesci non chiudono gli occhi” l’ho trovato molto poetico, intenso e ricco di stimoli. Ci sono state delle frasi che mi hanno illuminata, come “Ci sono delle ragioni che sono peggiori dei fatti” o altre metafore che hanno un particolare valore evocativo. Mi ha commosso anche il passaggio in cui De Luca apre uno squarcio nella sua vita privata ed è quando parla del distacco dalla ragazzina. Qui lui dice che “..da allora nessuna più si è fermata…” e allude al fatto che lui, pur avendo chiesto in sposa più di una donna, non si sia mai trovato fianco a fianco con qualcuna, davanti a qualcuno che chiedeva “vuoi tu…..?”. E’ questa una circostanza di cui lui ha parlato con rammarico durante una intervista.

De Luca mi piace come uomo e come scrittore e non mi importa la frequenza con cui produce libri, se questo significa provare le emozioni che ho provato.

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di Isa Bergamini

In questo libro la pagina è rarefatta, sembra che lo scrittore continui a girare intorno a se stesso, cercando di trovare un tema importante e collettivo per giustificarla davanti al lettore.
La Giustizia può riparare al torto commesso o ricevuto? Secondo la bimba sua amica/primo-amore sì, secondo de Luca, no.
Il tema è forte, coinvolgente e complesso, ma viene tradotto in parole lievi ai margini di un flash su un frammento di vita dell’autore.
Anche in “Tu, mio”, pubblicato nel 1998, stesso schema: la giovane ebrea sopravvissuta allo sterminio e il tentativo di vendicare, di fare giustizia a suo modo del giovane sedicenne, all’interno di una lieve micro storia.
Molti gli elementi in comune fra questi suoi due libri.
Una scrittura non barocca, ma barocchetta, di maniera, tessuta da pennellate di tipo impressionistico.
Lingua è poetica in alcuni momenti, ma la tentazione è di leggere quelle brevi definizioni che vorrebbero essere lingua poetica, come se nascessero dall’esercizio della settimana enigmistica, che gli ha dato il dono della sintesi e dell’immagine, come l’iperrealismo dei rebus, come lui stesso dice.
La pagina di De Luca è una pagina che sembra fatta a posta per essere letta ad alta voce, recitata. Conosciamo la sua bella voce, infatti leggendo sembra di sentirlo.

Il giardino dei sentieri che si biforcano, di Jorge Luis Borges

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31 gennaio 2012

Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, da Finzioni, Einaudi, 1995

di Isa Bergamini

Il Tempo al centro del Labirinto e lungo il Labirinto della metafora della vita e dell’universo, oltre che della storia che ne è pretesto narrativo.
Ogni elemento della narrazione appare per aprire un sentiero, aprire un varco possibile a cui affacciarsi, la suspence segna le pause della musica scritta per percorrere il giardino/labirinto/tempo.
Tutto procede con la precisione meccanica di un grande orologio, con i suoi ingranaggi ed i suoi organi oscillatori, per la dimostrazione, vorrei dire, matematica della molteplicità o della polisemia della realtà, della quale si può “solo immaginare un futuro che sia irrevocabile come il passato”, ma non certo determinarla, nè conoscerla.
Il Tempo è protagonista mai nominato di quel libro che Ts’ui Pen, antenato dell’io narrante, si ritira a scrivere.
Libro = Giardino = Labirinto = Tempo in sentieri che si biforcano articolandosi in rapporti, identificazioni, sovrapposizioni che si intersecano.
Il tempo della narrazione si intrica, si piega su se stesso per convergere al centro della storia/labirinto dove sembra chiudersi una delle possibili vie, che forse si biforca ancora.
La spia assassina, sarà condannata alla forca, ma in realtà ha aperto altri sentieri infiniti di infinite storie della Storia, con la sua azione, a suo dire, ineluttabile e necessaria.
Pare che non ci sia uscita dall’infinito labirinto.

Giardini di Felicità, di Marina Tartara

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31 gennaio 2012

Marina Tartara, Giardini di felicità, sentieri letterari dal duemila al duemila, Biblioteca del Vascello, 1993

di Isa Bergamini

Libro veramente di grandi emozioni, con il quale si percorrono Spazi e Tempi sia reali, che soprattutto dell’anima.
L’autrice dice di aver tracciato:
“… sentieri, del tutto personali, tra i giardini letterari di quattromila anni”, e aggiunge:
“… sono frammenti della memoria collettiva, raccolti col piacere della scoperta ed il conforto che procura il ritorno in luoghi familiari”.
Il libro è composto da cinque parti (1. Il sogno e la promessa; 2. Eros nel giardino; 3. Lo spazio della vita; 4. Il ricordo della speranza; 5. L’albero della conoscenza), con una breve Premessa ed una Postfazione dalla scrittura poetica nella quale Marina Tartara racconta del suo rapporto con il suo giardino, evocando il giardino dei sogni, ma soprattutto il giardino reale, luogo di lavoro e di fatica e oasi della fantasia.

Dai diamanti non nasce niente, di Serena Dandini

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31 gennaio 2012

Serena Dandini, Dai diamanti non nasce niente, storie di vita e di giardini, Rizzoli, 2011

di Antonella De Maio

Partendo dal titolo che ripropone un verso di De Andrè (che prosegue con “dal letame nascono i fiori”), la Dandini ci conduce, attraverso un verde dedalo rigoglioso di citazioni di ogni genere, verso la scoperta di un modo di occuparsi di se stessi, della propria spiritualità e dell’ambiente, curando le piante, osservandole nel loro lento sviluppo regolato dai ritmi immutati della natura.

L’ascolto del tempo scandito dalle stagioni è uno stimolo alla pazienza e alla cura, oltre che a cogliere il valore metaforico della tenacia delle piante che sanno farsi strada nel mondo anche in condizioni ostili. Ecco quindi l’esempio dell’albero di cachi cresciuto “con pazienza e dignità” fra le macerie di Nagasaki o il Ginko biloba germogliato dopo un anno dal fungo atomico a Hiroshima che ora troneggia maestoso e imponente.

La saggezza della pazienza è racchiusa nella citazione di Rousseau “Amara è l’attesa, ma il suo frutto è dolce”.

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